Ansia, stress, depressione, calo dell’autostima. Sono i sintomi che 1 autore su 2 prova dopo la pubblicazione del primo libro. A sostenerlo è il magazine britannico The Bookseller, con un sondaggio realizzato su 108 autrici e autori all’esordio.

Il motivo di tanta scontentezza è la mancata concretizzazione delle aspettative. Scrivere un libro è un investimento emotivo e temporale più o meno marcato. Ma è anche una fatica che stuzzica l’ego, perché l’immaginario romantico che vede in chi scrive colui che indica la via e rende poetica l’esistenza non è morto, anzi, è amplificato dai riflettori sempre puntati su quell’1 su 1000 che ce la fa. I restanti 999 però fanno i conti con un mercato spietato.

Secondo l’ISTAT, nel 2020 in Italia sono stati pubblicati oltre 80 mila libri. Si stima che il 70% di questi stia sugli scafali non più di 90 giorni, dopodiché sparisce. Esordire dunque significa darsi in pasto a un sistema spartano che ti consuma nel volgere di un trimestre, lasciandosi alle spalle cadaveri e coscienze traumatizzate. Eppure la pubblicazione resta un sogno che in tanti rincorrono, consci o meno delle conseguenze.

Allora abbiamo chiesto ad alcuni autori e autrici toscani se anche loro si sono sentiti infelici dopo l’esordio. Riportiamo qui le risposte degli intervistati (con loro consenso), con una breve biografia introduttiva:

 

Veronica Galletta

È nata a Siracusa e vive a Livorno. Da ingegnere ha lavorato quasi vent’anni per un ente pubblico. Con il romanzo “Le isole di Norman “(Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Per minimum fax ha pubblicato “Nina sull’argine” (2021).

Come ti sentivi i giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Il mio primo libro, “Le isole di Norman” edito da Italo svevo edizioni, ha avuto un’uscita un po’ travagliata: in teoria è uscito ai primi di aprile, quando è arrivato al deposito per la distribuzione: in pratica è arrivato in libreria a metà maggio. Era la primavera del 2020, le restrizioni per il Covid eccetera eccetera.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Il giorno del lancio sono scesa alla libreria sotto casa, a Livorno. Ho fatto un paio di foto con le amiche che sono venute a salutarmi, tutto nella panchina fuori dal locale, a distanza di un metro eccetera eccetera. Una mi ha anche regalato una bellissima pianta che io degenere non sono riuscita a non fare morire. Era tutto così fuori dalla norma che ero di buon umore. Una sorta di effetto paradosso credo. Erano tutti giorni fuori dalla norma.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

La settimana dopo mi sentivo uguale, i miei amici e le amiche avevano cominciato a leggere, mi arrivava qualche impressione, ma poco di più. Il mese dopo invece avevo già vinto il Campiello Opera Prima, e quindi mi sentivo baciata dalla fortuna, impegnatissima con la promozione, euforica. Un anno dopo, a maggio 2021, raccoglievo i frutti di quell’euforia. Avevo un nuovo editore e stavo correggendo le bozze di Nina sull’argine, il mio secondo romanzo, che sarebbe uscito in autunno per i tipi di minimum fax.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Il mio editore di allora, un piccolo editore di qualità, non mi aveva preparato a nulla. Non c’era molto a cui prepararsi a dirla tutta, viste le premesse di cui sopra, se non al fallimento. Ma a quello ero già preparata di mio, modestamente. E invece, a volte le cose accadono.

 

Luca Giommoni

Cortona, 1985. È insegnante di italiano per stranieri. Ha lavorato sia in scuole private che in associazioni no profit. Negli ultimi anni ha svolto anche il ruolo di operatore in un centro di accoglienza straordinaria. Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Effe, Pastrengo, L’Indiscreto e Corriere Fiorentino. Ha pubblicato il romanzo “Il rosso e il blu” (2021) per effequ.

Come ti sentivi la settimana prima della pubblicazione del tuo primo libro?

Ero molto concentrato: stavo mettendo in piedi un complesso sistema di leve a propulsione, molle ed elastici gialli in attesa del giorno del lancio del mio primo libro così da lanciarlo più lontano possibile. Ho chiesto consulti anche a un’architetta e a un ingegnere meccanico.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Ero agitato: non sapevo se il macchinario che avevo costruito avrebbe funzionato. Nel dubbio, sono andato nel punto più alto che conoscevo e ho posizionato il macchinario.

Il libro è schizzato via velocissimo, talmente veloce che è subito scomparso all’orizzonte.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Avevo poco tempo per ascoltare le mie emozioni. Ero sempre in giro a cercare dove fosse finito il mio primo libro. Lo avevo lanciato così lontano che non lo ritrovavo più.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Sì, aveva iniziato a raccontarmi qualcosa ma poi ha stappato la prima Tennent’s.

 

Simone Innocenti

È nato a Montelupo Fiorentino nel 1974, ha scritto “Vani d’ombra” (Voland) e la guida letteraria “Firenze Mare” (Perrone), dopo aver esordito con “Puntazza” (Erudita). Suoi racconti sono apparsi in varie antologie e sulla “Gazzetta di Parma”. Attualmente lavora al Corriere Fiorentino, dorso regionale del Corriere della Sera, e collabora con La Lettura.

Come ti sentivi la settimana prima della pubblicazione del tuo primo libro?

Il primo libro si chiama “Puntazza” e uscì nel giugno 2016 per Erudita, marchio indipendente di Giulio Perrone. Prima stampa: 120 copie, distribuite in sette librerie. Mi sentivo come mi sento oggi. Cioè: ok, va bene. Esce il libro e vediamo cosa succede.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Il fatto che il libro fosse distribuito in sette librerie che non erano neppure in Toscana fu un problema al quale ovviare. Chiesi dunque 100 copie per la presentazione: mi arrivarono in redazione. Aprii la scatola, controllai, la richiusi. La sera a casa consegnai il libro a mia mamma, alla quale era idealmente dedicato. Ero quindi al lavoro e stavo come si sta al lavoro.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Normale. Alla prima presentazione furono vendute le 100 copie. Fu un problema per la seconda presentazione, che era fissata una settimana dopo e che saltò perché non c’erano copie e l’editore non riusciva a stamparle per tempo. Non ricordo come mi sentivo a un mese di distanza. Un anno dopo stavo lavorando a una guida letteraria per Perrone editore: Giulio me l’aveva chiesta perché Puntazza non era andata male. La guida, uscita nella collana Passaggi di dogana, uscì col titolo “Firenze mare”.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

No, l’ambiente editoriale non è mica una seduta di psicologia. Non era successo nulla di eccezionale.

 

Simone Lisi

Firenze, 1985. È libraio e scrittore, da anni si trovano suoi racconti in antologie, tra cui “Odi. Quindici declinazioni di un sentimento” (effequ 2017) e “Vocabolario minimo delle parole inventate” (Wojtek 2020), e riviste, tra cui L’inquieto, Verde Rivista e numerose altre. È giurato del premio Prato Poesia e tra i fondatori della rivista In fuga dalla bocciofila. Ha pubblicato i romanzi “Un’altra cena” (2018) e “Padre occidentale – L’ineffabile origine dello yoga” (2020) con effequ.

L’autore ha risposto con un unico flusso di coscienza.

Mi ricordo che ho ricevuto la copia stampata del mio primo libro fuori dal cinema Alfieri, dalle mani dei miei editori ed è stato un bel momento. Era una serata di fine gennaio, freddissima, ma quella sera mi sembrava di sentire già odore di primavera. Non ero pronto a niente, alle presentazioni, alle interviste (ricordo il livello di tensione altissima che ho provato il giorno prima e il tutto il lungo giorno in cui mi intervistarono su Radio3), ma in qualche modo le ho fatte, in qualche modo si fa.

A un anno, cinque anni, a distanza di un altro romanzo alle spalle, la sensazione è che in fondo il primo romanzo ha un peso, ma quasi per nessuno oltre a te stesso. Qualcosa che continua a vivere la sua vita autonomamente, e parla di un preciso momento della tua vita, mentre tu sei cambiato, andato avanti, o se dire “andato avanti” suonasse un filo morale, diciamo semplicemente “andato”.

 

Giulia Martini

Ha conseguito un dottorato di ricerca con una tesi dedicata alle forme e alle funzioni del dialogo nella poesia italiana del Novecento. A giugno 2018 ha pubblicato il libro di poesie “Coppie minime” (Interno Poesia).  Sempre per Interno Poesia è curatrice dell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” (I vol. 2019, II vol. 2020, III. vol. 2022).

L’autrice ha risposto con un unico flusso di coscienza.

La pubblicazione di “Coppie minime” (giugno 2018) è stata un travaglio. Intanto, perché è durata più di un mese: all’epoca la mia casa editrice, Interno Poesia, sfruttava la modalità della prevendita online: trenta giorni di tempo per convincere 200 persone a pre-ordinare una copia del libro, sfida non da poco anche quando l’autore non è emergente e il genere in questione non è la poesia. Ma stavo esordendo proprio con un libro di poesie, non avevo contatti né idea di come funzionasse il mondo degli addetti ai lavori, mi metteva in difficoltà l’idea di espormi per autopromuovermi; soprattutto, stavo male perché il libro ormai era scritto, era come se avessi perso qualcosa per sempre, e non riuscivo più a prendere la penna in mano, a replicare il gesto poetico. Direi che era questa, più che la prevendita in sé, la tortura. Anche perché a un certo punto i testi hanno cominciato a girare e, contro ogni aspettativa, allo scoccare del trentesimo giorno, il traguardo dell’editore era raggiunto. Di lì è cominciato una sorta di grand tour, fra presentazioni, festival e reading, che mi ha portata fino in Argentina (e siamo partiti letteralmente zaino in spalla, con il fondatore della casa, Andrea Cati), oltre a tanti altri luoghi in Italia e all’estero. Oggi, a distanza di cinque anni, “Coppie minime” mi richiama ancora all’avventura (per esempio, in autunno uscirà una traduzione in spagnolo, che sarà l’occasione per un altro viaggio, e così via): qualcosa per cui sarebbe stato impossibile ‘prepararsi’ prima.

 

Francesca Mattei

Ha studiato sociologia e vive in una piccola città al confine tra Toscana e Liguria. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Verde Rivista, l’Elzeviro, Clean Rivista, SPLIT, Voce del Verbo, Narrandom, Malgrado le Mosche e nell’antologia “Vite sottopelle. Racconti sull’identità”, edita da Tuga Edizioni in collaborazione con la rivista Reader For Blind. Ha pubblicato “Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa” (Pidgin, 2020) e “Gli stessi occhi” (Zona42, 2022).

Come ti sentivi nei giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Come spesso avviene, non ho assolutamente memoria – e la frase potrebbe finire qui – di come mi sentissi o cosa pensassi nei giorni precedenti alla pubblicazione del libro. Non sapevo cosa aspettarmi, non me lo chiedevo e non ci ho mai riflettuto abbastanza da realizzarlo. Ma se dovessi ripensarci ora, forse direi che ero semplicemente emozionata. Non mi facevo molte domande – e di nuovo la frase potrebbe terminare qui – al riguardo.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Ricordo che era gennaio, ma forse mi sbaglio. Ero in casa. La notizia uscì sui social. Mi contattarono diverse persone che conoscevo e altre che non conoscevo. La sensazione bella, la stessa che per me è bella anche ora, è che ci fosse qualcuno che faceva e aveva sempre fatto il tifo per me.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Non riesco davvero a ricordare cosa provassi. Forse perché il libro è uscito in un periodo particolare. Era il primo marzo 2021 e c’erano molte restrizioni a causa del covid, quindi tutto sembrava finto. Non intendo la pubblicazione del libro, intendo proprio tutto. A un mese dall’uscita del libro era ancora tutto strano. Il primo evento in presenza fu a giugno 2021, su invito dei ragazzi e delle ragazze della pazzesca Verde Rivista. Un anno dopo, al libro non pensavo quasi più e anche adesso ci penso solo quando mi viene chiesto di farlo (nelle presentazioni, nelle interviste, nelle conversazioni al bar). Forse non ho mai creduto fosse qualcosa riguardo la quale “provare dei sentimenti”, “sentirsi in qualche modo”. Non so se ho scritto questa parte in italiano, spero si capisca cosa intendo.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Quella che ha pubblicato il primo libro, è una piccola casa editrice (Pidgin). Prima che mi contattasse per chiedermi di collaborare, stavo preparando del materiale da inviarle spontaneamente, quindi questo è stato il vero shock. Al tempo faceva tutto – davvero tutto, non sto esagerando: traduzioni, copertine, scouting, ufficio stampa – Stefano Pirone. Da solo. Si occupò di tutto anche dopo la pubblicazione. Organizzò qualche presentazione, altre arrivarono su richiesta di festival e librerie. Candidò il libro al Premio Pop e al John Fante e arrivammo in finale ad entrambi. A questo non ero preparata, ma forse neanche lui. A dire il vero non conoscevo bene il mondo dell’editoria, se non da lettrice, e tanto meno quello dei premi, quindi ogni cosa era nuova. Comunque sia quelle sono state belle notizie e alle belle notizie non si è mai preparati.

 

Francesca Matteoni

Pistoia,1975. Ha pubblicato le raccolte di poesia “Artico” (Crocetti, 2005) e “Appunti dal parco” (Wizarts, 2008), nonché due plaquette d’arte e la silloge “Higgiugiuk la lappone” nel X Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2010). Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana e si occupa della rubrica di scrittura della rivista romana Metromorfosi. Per effequ ha pubblicato “Dal matto al mondo. Viaggio poetico nei tarocchi” (2019) e “Io sarò il rovo. Fiabe di un paese silenzioso” (2021).

Come ti sentivi nei giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Il mio primo libro è stato “Artico”, un testo di poesia, pubblicato nel 2005 da Crocetti, ma in realtà i miei contatti non sono stati con l’editore, quanto con il progetto dell’allora vivo e vegeto Archivio Giovani Artisti dell’Assessorato alla Cultura di Firenze, che promuoveva la poesia a livello nazionale. Fui scelta da una commissione di esperti. Dunque è con l’Archivio e con i principali curatori che ho avuto rapporto e naturalmente ero molto felice: è un’esperienza dentro la quale sono cresciuta. Lo sbigottimento semmai è arrivato dopo, nello scoprire che essere scelta e pubblicata non era che il misero 5%. Bisognava poi far mandare i libri, scegliere interlocutori, entrare nell’ambiente, che nella poesia può essere una cosa molto più asfittica, a suo modo ridicola poiché non ci sono prospettive di carriera o veri guadagni, della prosa. Scelsi di mandare ai poeti che stimavo, il resto sarebbe venuto da sé, se doveva. Scelta di cui non mi sono mai pentita. Tra il primo e il secondo libro sono passati cinque anni, un tempo giusto per comprendere dov’ero. Per quanto riguarda la prosa, invece, il primo libro, un romanzo per racconti, “Tutti gli altri”, uscito per Tunué nel 2014, è arrivato grazie a un bel lavoro di editing fatto con Vanni Santoni. Ero molto più nervosa, sicuramente, rispetto alla poesia. Ma anche più consapevole che la mia parte è comunque la minoranza, per scelta e per elezione (non riesco a fare altro).

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Non ho ricordi di giorni di lancio, onestamente. Nel 2005 non avevo social, nel 2014, può darsi ci sia stato, ma ricordo molto poco, perché di base queste cose mi interessano solo nel momento in cui avvengono, poi penso ad altro. Penso a dove e come arriverà il libro, se qualche lettore potrà ritrovarcisi dentro e poi a cose più pratiche, tipo il tour di presentazioni.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Anche qui non so bene cosa rispondere: vale dire che ogni libro è il primo? Ci sono libri a cui si resta più legati indubbiamente. Credo però che molti, io di sicuro, lavorino sempre allo stesso libro, siano sempre nello stesso mondo che diventa più chiaro o confuso, a seconda di dove ci troviamo, e che cerca di emergere. Per “Artico” ero semplicemente e ingenuamente felice. Sono una poetessa, scrivo poesia (che esca in narrativa o in saggistica, cambia poco), è come accorgersi di essere viva, per me. Una grandissima paura dentro una forte meraviglia. I libri che pubblico sono “me”, una parte di me senz’altro più autentica, ma che si libera delle angosce tutte umane e temporanee dell’essere compresa, vista, accolta. Queste ovviamente ci sono. Mi ripeto sempre che sono un mio problema, non delle cose che scrivo.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Con gli editor, soprattutto per quanto riguarda la prosa, c’è uno scambio sul libro e sulla possibile accoglienza, che serve, ma credo che nessuno sia davvero preparato a niente. Con “Artico” l’unica preparazione possibile era quella per l’invisibilità, il regno della poesia in Italia. Mi va bene, là dentro ci ho trovato tutto quello che mi serve per ricordarmi chi sono (o cerco di essere).

 

Ferruccio Mazzanti

Firenze, 1983. Essendo laureato in Filosofia ha lavorato come fattorino, magazziniere, uomo delle pulizie, giardiniere, falegname, baby-sitter, commesso, cameriere, barista, bigliettaio, maschera, velina, guardia notturna, autista, parcheggiatore, accompagnatore, montatore, scaricatore, marinaio, stagista, sondaggista, addetto al volantinaggio, operatore di data entry, copywriter, tuttofare e tanti altri impieghi non specializzati. Nel 2014 ha cofondato la rivista In fuga dalla bocciofila, nel 2020 ha esordito con “Timidi messaggi per ragazze cifrate” (Wojtek) e nel 2023 ha pubblicato IL suo secondo romanzo M.C. (Wojtek)

Come ti sentivi la settimana prima della pubblicazione del tuo primo libro?

Molto nervoso, pensavo che chiunque avrebbe trovato refusi, errori grammaticali, sintattici, pensavo che il mio libro fosse orribile, poi mi sentivo contento, stavo per esordire, finalmente pubblicato, un libro che era una ficata, ma cosa avrebbero pensato di me? Visto che era scritto in prima persona i lettori avrebbero pensato che era una autobiografia? E quindi ancora ansia, angoscia e poi gioia. Cantare sotto la doccia. E quel refuso? Correre a controllare, ah no, ormai non posso più controllare, ormai è già stato stampato.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Era il 16 novembre 2020, Il giorno dopo il secondo lockdown a livello globale per il covid-2019. Ero chiuso in casa, come tutti, e guardavo le notizie sui telegiornali insieme alla mia ragazza e pensavo che nella vita ci sono cose più importanti dell’uscita del mio libro, però ero dispiaciuto che dopo tutta quella fatica fatta avrei dovuto aspettare mesi per vederlo tra le mani non dico di uno sconosciuto, ma anche solo del mio migliore amico. Dunque di base sospiravo ed ero preoccupato per le sorti dell’umanità.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

A distanza di una settimana più rilassato, avevo fatto alcune presentazioni online e nessuno mi aveva ucciso. Forse sarei sopravvissuto. A un mese contento perché stavo ricevendo buoni feedback da chi lo aveva letto e quelli meno entusiasti non erano così mortali come avevo temuto, potevo sopravvivere. A un anno stavo lavorando al secondo romanzo e quando andavo a presentare in giro il primo ormai volevo parlare delle cose nuove su cui stavo lavorando, per cui ero sopravvissuto.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Ci hanno provato, ma non credo che sia possibile preparare realmente qualcuno a una determinata esperienza. Li ringrazio comunque tantissimo perché il mio editor ha fatto veramente di tutto per tranquillizzarmi nei momenti di incertezza e paura.

 

Gabriele Merlini

Firenze 1978. Ha pubblicato il romanzo “Válečky o guida sentimentale alla Mitteleuropa” (effequ, 2013) e il saggio “No Music On Weekends. Storia di parte della new wave” (effequ, 2020). Ha inoltre curato le raccolte di narrativa “Selezione Naturale. Storie di premi letterari” e “Odi. Quindici declinazioni di un sentimento” (effequ 2013 e 2017). Come autore è presente nelle antologie “L’anno del fuoco segreto” (Bompiani 2023) e “Le segrete cose” (Le Lettere 2021). Scrive di musica e libri per il mensile Rockerilla. Suoi racconti, interviste, reportage sono apparsi su numerosi magazine online, riviste e quotidiani.

Come ti sentivi nei giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Beh. Un po’ curioso per la ricezione di un titolo insolito: “Válečky. O guida sentimentale alla Mitteleuropa”. Essendo io uno sconosciuto nessuno sapeva se fosse un romanzo, un reportage o un atlante geografico. Era il 2013 quindi potrei avere dimenticato qualcosa, ma direi pacificato e fiero. O almeno credo.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Ricordo la prima presentazione, la libreria zeppa di amici e le pagine sui giornali. Sono stato molto fortunato. Più che altro la voglia di parlarne; il fatto che gli altri lo potessero pure leggere era accessorio. Volevo aprirmi io al riguardo

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Era un’avventura mai sperimentata in precedenza, perciò benissimo. La tristezza, la rabbia e il senso di ingiustizia l’avrei provato con il saggio “No Music On Weekends” uscito a febbraio del 2020, una settimana prima del lockdown covid. Con il Válečky un lungo periodo ottimo, tra riconoscimenti e inviti a scrivere altro.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Nello stesso anno con Francesco Quatraro di effequ abbiamo lavorato al mio romanzo e ad un’antologia collettiva; ci siamo preparati a vicenda. Erano i primi passi per entrambi. Totale cooperazione, spirito dissacrante e studio. Una giovane, funzionale corazza.

 

Daniele Pasquini

È nato nel 1988 in provincia di Firenze e lavora come comunicatore e addetto stampa. Ha esordito in narrativa nel 2009 con “Io volevo Ringo Starr”, seguito dal romanzo breve “Le rockstar non muoiono mai” e dalla raccolta “Ripescati dalla piena”, tutti usciti per Intermezzi Editore. Suoi racconti sono comparsi su riviste e antologie.

Come ti sentivi la settimana prima della pubblicazione del tuo primo libro?

Ho un flash specifico su un evento di quella settimana. Era il settembre 2009, io facevo l’università, avevo appena preso uno dei miei rarissimi 30 e tornavo verso casa col motorino, sorridendo e canticchiando, circonfuso da un alone di benedizione, convinto che la vita fosse facile e bellissima: finché in Via Guido Monaco non mi schiantai sul paraurti di un’auto in frenata. Qualche sbucciatura, mandibola dolorante, e la sensazione – purtroppo sottovalutata – che l’evento avesse anche una portata simbolica.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Il mio libro è uscito in occasione di Ultra.Festival della letteratura in effetti, e la presentazione di “Io volevo Ringo Starr” era il primo evento di quel festival, nel foyer del Teatro della Pergola a Firenze. Ero assolutamente impreparato, non sapevo niente di editoria, di presentazioni, non avevo un’educazione letteraria, il libro mi era venuto naturale e avevo trovato un editore onesto senza nessunissimo sforzo: mi trovai catapultato in un contesto di cui non ero in grado di comprendere la portata. Oltre a Raveggi, Merlini, Santoni, Giannini e parte di quella che poi avremmo definito “scena fiorentina”, ricordo che mi trovai a cena con gente del calibro di Giorgio Vasta, Antonio Moresco, Filippo Tuena. Oggi ci ripenso con un misto di nostalgia e vergogna, ma essere del tutto inconsapevoli in fondo ti rende anche più libero e sereno. Oggi probabilmente aprire un festival o cenare coi mostri sacri mi darebbe più paturnie di allora.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Attimi di esaltazione, ma finisce tutto rapidamente. Intermezzi, l’editore con cui ho esordito, mi ha accompagnato in tante presentazioni e fiere, nel giro di pochi mesi mi ha dato la possibilità di scoprire altri autori, di indirizzare le letture e di capire in che tritacarne ero capitato. Avere il proprio romanzo a vent’anni in uno stand al Salone di Torino significa toccare con mano che sei uno su un milione, che se vendi 1000 copie puoi cominciare a considerarlo un successo. Sono cose con cui è bene fare i conti, perché anche se da un lato è deprimente, dall’altra depotenzia molto la componente di vanità che sta dietro la scrittura, e questo direi che è un bene.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

No, ma francamente era impossibile, ero troppo inconsapevole. Esordire a vent’anni significa bruciare le tappe, e bruciare le tappe vuol dire non avere preparazione o riparo sufficienti. Quando nel 2022 è uscito “Un naufragio” con SEM l’ho vissuto come l’esordio consapevole che non avevo provato prima.

 

Giulio Pedani

Siena, 1981. Ha pubblicato racconti su Futbologia, Pastrengo, In fuga dalla bocciofila, Corriere della Sera e numerose altre riviste. Col racconto “Passami il granchio” è nella raccolta “Odi. Quindici declinazioni di un sentimento” (effequ, 2017). Il suo racconto “Respirano” ha vinto il premio Petrarca. Fiv organizzato dalla rivista Con.tempo e patrocinato dalla città di Figline e Incisa Valdarno (FI). Per effequ ha pubblicato “L’iguana era a pezzi – Tre vite lungo la Francigena” (2019) e “Grande fiume senza cuore” (2022).

Come ti sentivi la settimana prima della pubblicazione del tuo primo libro?

Nei giorni precedenti all’uscita del mio primo libro mi chiedevo, insieme agli altri ventottomilacinquecento esordienti di quel mese (maggio 2019), se sarei stato in grado di gestire la ribalta nazionale. Se avrei saputo gestire le richieste pressanti del Corriere, che avrebbe insistito per dare a me lo spazio di Gramellini, o di Severgnini; se avrei resistito alle avances del Foglio, che avrebbe voluto fare di me il nuovo Mattia Feltri, o di Domani, che mi avrebbe visto bene come nuovo Stefano Feltri, e persino del Giornale, che avrebbe voluto lanciarmi come nuovo “battitore Libero” (battuta di Sallusti) al posto di Vittorio Feltri. Per non parlare, naturalmente, delle plurime lettere con struzzo Einaudi inviate a casa, dell’approccio soft ma interessato di Adelphi, della proposta indecente della Nave di Teseo. E al Ninfeo di Villa Giulia, in occasione della finale dello Strega, avrebbero servito gin Malfy o un classico Bombay? E ghignavo, pensando che tanto io avrei bevuto Hendricks, magari da una bella boccia blu portata da casa. E il denaro? Cosa avrei fatto di tutto quel denaro? Ma questo, sinceramente, era un problema secondario.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Il giorno del lancio del mio primo libro mi trovavo a Firenze, dove abitavo, e stavo cercando, in giro per la città, qualcosa che somigliasse a un’iguana, preferibilmente gigantesca. La trovai nel tardo pomeriggio, a villa Strozzi. Era un’iguana di legno, nascosta nella parte bassa del parco, vicino all’uscita che dà sulla strada di Soffiano.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

A una settimana dall’uscita del libro mi sono sentito come Stefano Feltri: arrogante e orgoglioso. A un mese, come Mattia Feltri: un po’ abbacchiato, ma con ancora qualche guizzo d’estro. A un anno, come Vittorio Feltri: disilluso e fuori di testa.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

L’editore mi aveva preparato in modo saggio e affettuoso a ciò che sarebbe successo. Mi aveva solo messo in guardia su un punto: “Occhio, i Feltri sono parecchi…”

 

Vanni Santoni

(1978). Ha pubblicato, tra l’altro, la saga di “Terra ignota” (Mondadori 2012-2017), “I fratelli Michelangelo” (Mondadori 2019), “La scrittura non si insegna” (minimum fax 2020) e “La verità su tutto” (Mondadori 2022). Scrive sul Corriere della Sera. Per Laterza è autore di “Se fossi fuoco arderei Firenze” (2011), “Muro di casse” (2015), “La stanza profonda” (2017, candidato al Premio Strega), “Gli interessi in comune” (2019) e “Dilaga ovunque” (2023).

Come ti sentivi nei giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Per rispondere in modo sensato a questa domanda è necessario sdoppiarla. Il mio esordio, “Personaggi precari”, oggi edito da Voland, uscì per una micro-casa editrice, la RGB, in seguito alla vittoria di un concorso. Quindi ero contento, ma nei giorni precedenti non avevo particolari sensazioni, perché ero perfettamente consapevole della piccolezza della casa editrice, che non avrebbe dunque avuto fondi per organizzare presentazioni, fare promozione, mandare copie stampa, ecc. Tra l’altro pochi mesi dopo la casa editrice fallì.  Il libro l’avrò presentato due o tre volte al massimo. Ricordo che alla fine della fiera rimasi un po’ deluso del venduto poco sopra le mille copie, senza rendermi minimamente conto, da non conoscitore del campo editoriale, del fatto che era un risultato straordinario per una casa editrice delle dimensioni della RGB, che si spiegava con la fama del blog da cui era tratto il libro. Quando invece firmai con Feltrinelli per “Gli interessi in comune”  le cose erano diverse e avevo aspettative enormi.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

“Personaggi precari” non sapevo neanche il giorno esatto d’uscita, ma ricordo che una mia amica andò in una libreria e ce lo trovò e ciò mi fece piacere. Per “Gli interessi in comune”, invece, avevo ovviamente una data esatta e mi fiondai in una Feltrinelli, trovandola letteralmente pavesata di copie del mio libro e godendo, devo dire, molto.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Di nuovo, con “Personaggi precari” nessuna sensazione particolare, ero solo contento che esistesse e non mi aspettavo nulla. Con “Gli interessi in comune”, a una settimana l’esaltazione era alta, stavo facendo le prime presentazioni; a un mese, vedendo che non uscivano molte recensioni iniziavo a capire che un ufficio stampa a cui non l’autore non fornisce un listone di nomi molto mirato e un supporto costante, difficilmente farà uscire molti pezzi, specie in una major dove deve seguire svariati titoli. A un anno avevo già capito da un po’ che avrei dovuto sbattermi io e mi ero messo a presentarlo in giro, il che ovviamente ebbe effetti minimi, però mi permise di conoscere un sacco di scrittori e librai, cosa che è stata molto utile dopo.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

L’editore di “Personaggi precari” non sapevo neanche chi fosse, interagivo con “Personalità confusa”, un blogger ai tempi molto famoso, che era un tipo davvero carino e simpatico, ma non aveva nulla a cui prepararmi, ci facemmo giusto qualche amena chiacchierata. Circa Feltrinelli, le aspettative erano alte anche da parte loro (investirono in pubblicità e in espositori dedicati) ma non supportate da un lavoro adeguato da parte dell’ufficio stampa. A me comunque non interessava fare un giga-seller, interessava uscire con un grande editore così da avere una chance di fare lo scrittore di mestiere, quindi alla fine è andato tutto bene. Tanto più che quando poi Feltrinelli ha messo “Gli interessi in comune” fuori catalogo nonostante fosse molto richiesto, negli anni successivi, dai lettori che mi ero guadagnato con i miei altri libri, c’è stata sì una sofferenza di qualche anno, ma poi è stato recuperato da Laterza, tornando disponibile.

 

Andrea Zandomeneghi

Nato a Capalbio nel 1983. Scrive sul Foglio e ha diretto la rivista Crapula Club. “Il giorno della nutria” (Tunué, 2019) è il suo primo romanzo.

Come ti sentivi nei giorni precedenti la pubblicazione del tuo primo libro?

Impaziente che uscisse, in particolare non vedevo l’ora di leggere le recensioni.

Ricordi il giorno del lancio del tuo primo libro? Dov’eri, cosa stavi facendo, come ti sentivi?

Sì, ero a casa mia, mi sentivo i riflettori addosso e mi dava piacere. Ricordo che quel giorno uscì la recensione di Edoardo Rialti sul Foglio e che me la rilessi varie volte.

Come ti sei sentito a una settimana, un mese e un anno dalla pubblicazione del tuo primo libro?

Una settimana: ingordo di attenzioni. Un mese: stanco delle attenzioni. Un anno: dimenticato.

Il tuo editore ti aveva preparato psicologicamente a quello che sarebbe successo dopo il lancio?

Mi ha seguito Santoni come direttore di collana e m’ha preparato schiettamente e senza infiorettamenti a quello che m’attendeva.