Mi rendo conto solo adesso di avere un debole per i cancelli: adoro quelli slanciati, con le guglie che sembrano aspettare una pioggia di polli dal cielo; per non parlare poi di quelli moderni con lastroni di metallo interi, senza feritoie, alla moda dei castelli medievali; e poi quelli vecchi e putridi che puzzano di legno sciupato, intriso d’acqua acida che nel tempo ha reso tutto marcio e stanco.
Ma su tutti, senza nulla togliere a questi appena menzionati, i miei preferiti sono quelli che non hanno niente da proteggere, quelli che non dividono qualcosa da qualcos’altro, quelli che semplicemente stanno in mezzo a un prato, magari retti da colonne al limitare, ma che non proseguono con nessuna recinzione, niente di niente, solo suolo libero e zone calpestabili. Hanno una certa aria di refuso, come di errore di valutazione, di qualcosa che rimane per sbaglio, o che forse per volontà viene lasciato a memoria storica, come per dire che qui c’è stato qualcosa e ora non c’è più.
A Pozzolatico, però, dei miei cancelli prediletti non c’era traccia. Parliamoci chiaro: non è mai facile subire una cocente delusione, avere aspettative troppo alte rischia di rigettarsi addosso come un neonato che ha mangiato troppi vasetti Mellin. C’eravamo imbarcati in un viaggio verso un luogo ameno dal valore di circa nove milioni e rotti di euro. Le giravamo intorno, a questa fantomatica villa, senza vederla ma con desiderio, alla mercè delle zanzare settembrine. Cercavamo un accesso praticabile: era lì, tra ciottoli, imprecazioni e sconforto. Ma nulla. Ci trovammo di fronte a un cancello insormontabile – saranno stati sei metri e mezzo di altezza – che nemmeno io con i miei proverbiali quadricipiti sarei mai riuscito a superare, nemmeno con l’utilizzo di un’asta olimpica.
Fu una disfatta, una resa incondizionata. Ci guardammo e riprendemmo zitti zitti la via di casa, facendo la conta dei pinzi sulle mani e sui malleoli scoperti.
Crediti fotografici: Irene Tempestini