di Riccardo Gatteschi

In mezzo a tante notizie catastrofiche – la pandemia che sembra in calo ma poi risale nel numero dei contagiati, una guerra folle che si combatte nell’est dell’Europa causando migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e milioni di profughi – finalmente una notizia che ridà una ventata di ottimismo nelle altrimenti grigie giornate trascorse nel timore che qualcuna delle tragedie che si consumano nel mondo possa abbattersi anche sopra di noi.

La piacevole novità, almeno per i fiorentini, è che il quasi centenario stadio di calcio Franchi non verrà collocato in pensione ma sarà restaurato, ammodernato e “tettoiato”; insomma reso più efficiente in termini di agibilità e di comfort per gli spettatori.

I miei ricordi di quell’immenso anfiteatro vanno indietro nel tempo fino a quando aveva ancora il suo nome originario, quello di Giovanni Berta, militante fascista morto nel 1921 durante gli scontri intorno alla fabbrica Pignone. Ho definito lo stadio “immenso” perché così appariva agli occhi di un bambino di nemmeno quattro anni trasportato sugli spalti da uno zio ex calciatore per assistere a un allenamento.

Lo rividi qualche anno più tardi, all’indomani di una guerra che aveva lasciato le sue tracce devastanti su buona parte della città, aveva salvato lo stadio ma si era deciso, con la mutata situazione politica, di ribattezzarlo con l’appellativo generico di “comunale”.

Ci entrai dalla porta principale, con il cuore in gola e le zampette tremanti al pensiero che, dopo il provino, avrei potuto far parte della famiglia viola. Così non fu, ma ormai la Fiorentina mi era entrata nelle viscere e non mi avrebbe più abbandonato, seppur con alti e bassi nel livello della passione e della partecipazione.

All’età di 10/12anni ero un diligente “aspirante” e frequentavo tutti i pomeriggi il circolo dell’Azione Cattolica nei locali adiacenti alla basilica di Santa Maria Novella, parrocchia alla quale appartenevo per ragioni geografiche. Fra le varie attività sportive – primarie erano il ping-pong e l’atletica – non era previsto il calcio ma un sacerdote – ricordo ancora il suo fisico slanciato e asciutto avvolto nella tunica bianca dalla quale usciva un bel viso sempre sorridente – era riuscito a ottenere dalla dirigenza della Fiorentina dieci posti gratuiti in curva Fiesole che lui metteva in palio fra noi giovanissimi “aspiranti”: sarebbero stati assegnati ai primi dieci ragazzi che si presentavano in chiesa per la messa domenicale delle otto. E in quell’unica mattina in cui potevamo dormire, liberi da impegni scolastici, molti di noi si alzavano anche più presto per arrivare in chiesa prima che altri nove lo avessero già fatto.

Il pomeriggio era un trionfo di emozioni. Le nostre mamme ci avevano preparato un paio di panini con una borraccia d’acqua e, se la partita era di una certa importanza, ci radunavamo con il sacerdote accompagnatore in Piazza della Stazione prima delle 11 e salivamo sul tram numero 17 (spesso senza pagare il biglietto o, peggio, attaccati all’esterno delle porte che non avevano sportelli) e ci mescolavamo alle migliaia di spettatori. I posti nella curva non erano segnati o circoscritti e, in caso di ressa, stavamo pigiati come sardine nella scatoletta. Ma non soffrivamo né il caldo né il freddo né la tramontana del gelido febbraio, né le grida sguaiate verso l’arbitro se, ai nostri occhi, commetteva qualche errore. Tutta la nostra attenzione era concentrata in quel rettangolo esageratamente verde sul quale volteggiavano undici giocatori con i calzoncini bianchi e la maglia viola (degli altri undici non ci importava un fico secco!).