Che c’entrano le sirene con la Pasqua? Fulgide influencer già spiaggiate ai Tropici? Autoambulanze che corrono da chi si è arrostito un dito durante una grigliata? Niente di tutto ciò, si parla – ancora – di dolci.
Non è facile immaginare delle sirene all’opera in cucina, ma la storia narra di una sirena di nome Partenope, sulle cui spoglie sarebbe nata Napoli, alla quale gli abitanti di quello che, era all’epoca, un villaggio rendevano omaggio per il suo canto, donandole tutti i frutti della propria baia: il grano della Campania Felix, la ricotta dei pascoli, l’acqua e il miele dei fiori, gli agrumi della costiera, le uova simbolo di rinascita. Questi ingredienti vennero offerti dalla sirena al cospetto degli Dei che crearono la pastiera e che incaricarono la sirena di farne omaggio ai napoletani.
In epoca greco-romana preparazioni simili all’odierna pastiera venivano portate in processione dalle Sacerdotesse della Dea Cerere, entità che ancora viene associata in astrologia al tema del nutrimento.
Poi accadde che i riti dedicati alla Madre Terra venissero nei secoli estirpati dal Cattolicesimo alla ricerca di nuove relazioni che da materiche, profumate di fiori e di latte, diventavano inspiegabilmente relegate a leggende che risiedevano nell’alto dei cieli. Addirittura, c’entrano a quanto pare i culoni delle monache del convento di San Gregorio Armeno, che nel XVII secolo si dice covassero sulla sfoglia per farla riposare prima della stesura. Una ricetta che si gioca tra sacro e profano in campo femminile: da un lato le sirene, le cui urla facevano perdere la testa, dall’altro le monache, i cui sospiri erano fatti di sole preghiere, egualmente inarrivabili dal genere maschile, ma diametralmente opposte e unite nella celebrazione della rinascita.