THE APARTMENTS “In and Out of the Light”

Talitres

Se un domani dovesse esser stilata una chirurgica classifica di cantanti crepuscolari, Peter Milton Walsh sarebbe senz’altro sul podio. Australiano di Sidney, formò i The Apartments – nome in omaggio al film di Billy Wilder – nel 1978 per quello che è stata, sin da subito, una delle cose più belle del giro di Brisbane. Talmente bella che Peter fu chiamato da Robert Forster e Grant McLennan per unirsi ai The Go-Betweens, freschi di proposta di contratto da parte della Beserkley Records per pubblicare otto album, quando nella discografia giravano ancora due lire. Ma come ci tiene a sottolineare Grant, Walsh è la notte, noi siamo il giorno. Noi siamo il sole, lui è la pioggia e le cose non funzionarono. Sliding doors e amici come prima. Nel frattempo Walsh è andato prima a New York e poi a Londra, dove, nel 1985 ha riformato la band – avrete capito che i The Apartments sono Peter Milton Walsh – e ha pubblicato il primo lavoro vero e proprio, su Rough Trade.  Settimo album in carriera, “In and Out of the Light”, è esattamente quello che puoi aspettarti dai The Apartments, oggi: classe infinita, canzoni, linee armoniche e melodie che si ritrovano dopo tanto anni e che raccontano di personaggi all’indomani di perdite o cambiamenti. È folk crepuscolare, appunto, con i fiati a rendere gli episodi più belli, ancora più belli. Brani come ‘Pocketful of Sunshine’, ‘Write Your Way Out of Town’ e la conclusiva ‘The Fading Light’, con il fantasma di Bill Fay, rendono giustizia ad un lavoro enorme e unico.

SAULT “Untitled (Black Is)”

Forever Living Originals

Nel mio personalissimo rapporto di amore/odio verso progetti/band/collettivi segreti – nel senso che non se ne conosce l’identità dei membri coinvolti – il nuovo album dei SAULT, intitolato semplicemente “Untitled (Black is)” e accompagnato da un bel pugno chiuso di protesta in copertina, supera ogni mia perplessità. Perché qui fortunatamente, almeno per ora, sembra che le canzoni e il loro messaggio siano al centro di ogni cosa, senza necessariamente voler venderci accendini ad un pop-up store sui Navigli. Composto da venti brani, il disco ha anche il pregio ed il tempismo di uscire in un momento particolarmente delicato ribadendo, con eleganza, quanto black sia beautiful. Disco di protesta come ormai non se ne fanno più – come se avessimo paura ad esporci, qui in Italia fra l’altro siam campionissimi di cerchiobottismo – “Untitled (Black is)” è una miscela di generi e di influenze, tra inserzioni elettroniche fumose stile Massive Attack, gospel R&B come Miss Hill, Funk, Soul e parti afro come nella micidiale doppietta ‘Bow’/’This Generation’ che vede ospiti rispettivamente Michael Kiwanuka e Laurette Josiah. Fra canzoni e spoken, ci sono almeno quattro episodi notevoli che rendono il disco fra le uscite più belle dell’anno sin qui pubblicate: l’iniziale ‘Out the Lies’, la successiva ‘Stop Dem’, ‘Wildfires’ – forse uno dei momenti migliori del disco – e ‘Why We Cry Wy We Die’.  

BANANAGUN “The True Story of Bananagun”

Full Time Hobby

In uno dei periodo più depressi della storia contemporanea, ogni tanto ci concediamo degli ascolti più leggeri, cercando comunque di mantenere il qualitatometro ad un livello più che dignitoso. Nel caso dei Bananagun riusciamo agilmente a portare a casa leggerezza e qualità, grazie all’eccellente lavoro di Nick VanBakel e compagne e compagni. Provenienti da Melbourne, si inseriscono con difficoltà all’interno della scena psych australiana, anche perché il loro suono riesce a legare sì i momenti più colorati degli anni ’60 e ’70, ma anche afrobeat-exotica con richiami a Fela Kuti, il proto garage dei The Monks oltre al groove degli Os Mutantes. Essendo “The True Story of Bananagun” il primo album della band – era uscito solo un EP lo scorso anno e un singolo che poi ha anticipato questo disco – ed essendo da anni ormai un periodo in cui le etichette razzolano per cercare tesori nascosti per operazioni di ristampa, potrebbe quasi essere proprio una di quelle perle rimaste in qualche cassetto di un discografico distratto, tanto il lavoro è vintage e rétro. Ma non c’è revival e nostalgia qui, semmai la fresca scrittura di Nick cresciuto tra video di skate e beat hip-hop. Il disco fila via che è un piacere, lasciando quella voglia, per nulla scontata, di riavvolgere tutto e riascoltare. Brani preferito, ‘Freak Machine’, uno dei pochi brani cantati che ci ha ricordato un qualcosa di tribale in salsa british Kula Shaker/Stone Roses e la superba ‘Out of Reach’, elegante bossa nova con echi lounge.

FRASTUONI SU SPOTIFY

La playlist di Frastuoni è su Spotify. Aggiornata settimanalmente, contiene una selezione dei migliori brani sia italiani che internazionali, in linea con i gusti della rubrica. In copertina Sault.

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