Giovanni Truppi è un cantautore capace di trattare con la stessa profondità e verità una storia d’amore e le sfide della sua generazione. La sua carriera, iniziata un decennio fa, arriva ai riflettori dopo tanta strada lontana dalle vetrine e dai social network, ma in una rete proficua di rapporti e collaborazioni. In questa scia si inserisce “5 – Cinque”, il lavoro più recente, in cui Giovanni reinterpreta alcuni suoi brani e ne inventa altri con l’aiuto di Calcutta, La rappresentante di Lista, Niccolò Fabi e Brunori Sas. Il 30 luglio suonerà al Parco dell’Acciaiolo di Scandicci all’interno del Florence Folks Festival. Per l’occasione, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Ascoltando la tua discografia si percepiscono due matrici: una cantautorale e una punk. Ti ci riconosci? Come hanno dialogato queste due “metà” nel tempo?

Sì, mi riconosco in questa definizione. Entrambe queste anime a volte mi viene da chiamarle così, altre volte quella punk la chiamo rock o anarchica, è la parte più libera della mia scrittura. Quella cantautorale è connessa al concetto di canzone in generale e a quanto sono legato ed amo questa forma di scrittura che per me precede la nascita del cantautorato per come lo conosciamo, dall’inizio del ‘900 con la canzone napoletana, ma anche le canzoni americane di Gershwin per i musical. Entrambe rappresentano in maniera ampia dei miei amori, quello per la forma canzone intesa in senso stretto, cioè nella sua evoluzione storica, e la musica in generale, in tutto quello che è stato creato in termini di stili e i modi in cui la fantasia dei musicisti si è manifestata e ha procreato nel corso dei decenni fino a ora. Sono cose che non percepisco in conflitto mai, anzi. 

Mi sembra che il pubblico ti riconosca una certa autorità di cantore delle difficoltà e delle sfide di una generazione, la nostra, per la quale niente è scontato, nemmeno di se stessi. Ti ci riconosci? In generale ha senso per te parlare di generazione?

Ovviamente io parto dal guardare quello che ho intorno, ciò che mi riguarda, quindi gli elementi e le caratteristiche della generazione di cui faccio parte. Detto questo, in realtà mi capita molto raramente di fare riflessioni in senso generazionale, o di trarre conclusioni di tipo generazionale. Anche perché aspiro a scrivere cose che possano dialogare con generazioni diverse dalla mia. Penso che abbia molto senso che innanzitutto io riesca a dialogare con chi mi è contiguo, ma spero che il discorso non si esaurisca lì: mi dispiacerebbe.

Sei diventato un punto di riferimento per tutti quei musicisti che credono nella “gavetta”, che cercano di emergere mantenendosi coerenti con se stessi e percorrendo vie più indirette verso il successo rispetto a vetrine televisive o social. Che effetto fa? 

In realtà non mi capita che le persone me lo dicano; probabilmente ha senso che non lo dicano a me. Credo che molti artisti della mia generazione o anche più giovani di me abbiano fatto un percorso simile, quelli provenienti dalla musica che definiamo indie, per meglio intenderci. A prescindere da quello che possa o meno piacere della musica di questa ondata, di questo movimento, tutta ha fatto un percorso di gavetta più o meno lunga. Mi sembra che sia un segnale bellissimo per chi si approccia a questo lavoro. Non riesco a riconoscermi un merito in ciò, però: io ho fatto quello che riuscivo a fare, non mi interessava né sarei stato in grado di fare un percorso diverso.

Tu provieni da studi jazz e da anni di insegnamento di canto; allo stesso tempo la tua scelta è quella di raccontare storie senza filtro, senza rifiniture. Com’è il tuo rapporto col canto e con la voce? Come è cambiato nel tempo?

Il rapporto con la voce appartiene ad una sfera molto intima, unisce la corporeità e la parte emotiva. Per me è un rapporto sempre in via di risoluzione, tappa dopo tappa si accorda su delle cose un po’ diverse, non per forza in senso lineare. Se penso all’inizio del percorso, suonavo il pianoforte e la chitarra, scrivendo canzoni che non immaginavo subito di cantare. Mi interessava molto ma non mi trovavo adatto a cantare. Quindi ho iniziato a studiare canto, e dalle prime registrazioni in poi, se mi riascolto, mi sembra di rintracciare un percorso di avvicinamento a un tipo di espressione anche molto istintuale, che vuol dire avere a che fare anche con una parte complessa di me stesso. Se vado alle prime cose che ho registrato, si sente che cercavo di rispettare delle regole, poi ho provato a metterle completamente in discussione e poi le ho in parte recuperate. Tuttora la vocalità è un argomento su cui continuo a riflettere; faccio dei piccoli esperimenti, si tratta comunque di “canzonette”, non è il campo della canzone quello in cui si può sperimentare così tanto dal punto di vista vocale, per lo meno per come scrivo io.

Come sono nati i rapporti alla base delle collaborazioni in “5”? Come è stato il lavoro con personalità così diverse? 

È stato molto bello e anche più semplice di quello che mi aspettavo. All’inizio, quando mi è venuta l’idea, ero un po’ preoccupato dallo svolgimento del tema. Per ognuno di questi artisti c’è stato un dialogo, le canzoni infatti sono riarrangiate. A questo va aggiunto il dialogo con i cinque fumettisti che hanno lavorato sui pezzi, anche se con loro si è trattato più di affidargli la musica e le storie, volevo che fossero molto liberi. Nelle canzoni, dovendo convivere con altri artisti, c’è stato più dialogo. In realtà con tutti i musicisti coinvolti, anche se non c’è una frequentazione assidua per motivi logistici, avevo avuto una bella intesa umana negli ultimi anni; quindi ognuno a suo modo con le proprie caratteristiche è stato disponibile e ha messo in condivisione quello che sapeva e poteva, in modo diverso. Con Calcutta e Fabi ci siamo incontrati in studio, con Brunori e la Rappresentante di lista abbiamo lavorato a distanza. Entrambe le cose sono state interessanti in maniera diversa. Io avevo lavorato sempre in solitaria e con una squadra abituale, quindi l’esperienza era nuova per me. 

Il risultato ha corrisposto alle aspettative?

Sicuramente è venuto fuori qualcosa che non mi aspettavo anche perché ho lasciato poco spazio alla programmazione, cosa che di solito non faccio; ho dato molto margine alla creatività in studio e questo riguarda anche tutti i musicisti coinvolti, a parte gli “ospiti” (ad esempio Giovanni Pallotti, produttore, Paolo Mongardi alla batteria, Massimo Colagiovanni…). Di solito arrivo in studio con le idee molto chiare sugli arrangiamenti, invece abbiamo lasciato molto margine alla creatività del momento. Alcune cose sono nate in studio, senza che avessi idea di cosa sarebbe potuto succedere. Questo vale fino al missaggio, dove Andrea Suriani è stato molto creativo, in maniera inaspettata.

Come stanno andando queste date?

C’è stata l’anteprima delle anteprime il 15 giugno a Bologna, all’Arena Puccini, il primo giorno dopo il lockdown per la musica. E poi Carpi. Sono stati concerti molto belli. Si sente che per le persone sono occasioni speciali, ed è così anche per me che suono. Questo ti mette meno a tuo agio rispetto al solito, ma da quel tipo di energia si tirano fuori cose interessanti.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? 

Quest’estate sarò in giro, faccio questo tour / viaggio in camper da Ventimiglia a Trieste, sono molto concentrato su quest’idea che avevo in testa da un po’. La certezza di poterlo fare è arrivata ovviamente con poco preavviso, quindi sto tuttora pianificando tappe, cose da vedere e persone da incontrare. Questo viaggio finirà tra un mese e a quel punto vorrei fermarmi con i concerti e concentrarmi su nuova musica.