SLEATER-KINNEY “The Center Won’t Hold”

Mom + Pop / Caroline

Tutto partì da un tweet, con relativa foto su Instagram e post su Facebook. C’erano le (allora) tre Sleater-Kinney con St. Vincent, vero nome Annie Clark. Giubilo tra i fan di quest’ultima, perplessità tra i fan duri e puri delle prime, curiosità tra i democristiani. Pur non essendo duro e puro, ero più che perplesso di questa collaborazione. La patina che avvolge i lavori di St. Vincent, mal si addice alla crudezza dei suoni delle Sleater-Kinney, soprattutto alla luce di un ritorno come quello del clamoroso “No Cities to Love”. Altro indizio non proprio rassicurante è stato quello dell’abbandono, per motivi artistici, della batterista Janet Weiss. Ovviamente non sappiamo esattamente come siano andate le cose, ma possiamo desumerlo ed avvicinarsi. Cioè che a Janet, questo nuovo percorso, non piacesse. Capita. Senza pregiudizio alcuno, giurin giurello, abbiamo ascoltato “The Center Won’t Hold” con attenzione massima e speranza. Speranza che i timori fossero infondati. Purtroppo non è così e, se le Sleater-Kinney hanno tutto il diritto di questo mondo di cercare nuove vie soprattutto dopo aver, con “No Cities to Love”, raggiunto un qualcosa di molto vicino alla perfezione in ambito rock, il risultato è spesso altalenante. Che poi non possiamo certo definirlo come “disco brutto”, perché ecco, brutto non è. Ci sono alcuni episodi buoni, come ‘Hurry on Home’ e ‘The Dog/The Body’, e altri un po’ meno buoni come ‘Reach Out’ e ‘Ruin’. Il problema è che suona come un disco di St. Vincent, anche se il cantato di Carrie Brownstein e Corin Tucker rimane particolare è ben riconoscibile. Ma quel cellophane messo su, ecco no. Se poi volevo ascoltarmi un disco di St. Vincent, mi compravo un disco di St. Vincent. Ma non ne ho mai comprato uno.

JAIMIE BRANCH “FLY or DIE II: Bird Dogs of Paradise”

International Anthem

Vi do un nome per uscire e stupire tutti, con eleganza e sostanza, dalla stretta finale di qualsiasi discussione musicale: Jaimie Branch. Si tratta di una giovane trombettista nata nei dintorni di Brooklyn 36 anni fa e trasferitasi, all’età di 14 anni, a Chicago, guarda caso città di una fiorente scena jazz moderna e casa di International Anthem, (relativamente) nuova etichetta che, da qualche anno, sta cercando di far conoscere questo movimento anche nel vecchio continente. Il primo album di Jaimie si intitolava “Fly Or Die”, uscì un paio di anni fa e sorprese a tal punto da essere scelto come “Best Albums of 2017” da The New York Times, Los Angeles Times, NPR Music, WIRE, Stereogum e altri media, mica pizzaefichijazz.com. “FLY or DIE II: Bird Dogs of Paradise” è il nuovo album della Branch, questa volta non solo trombettista e compositrice, ma anche cantante. Registrato per la maggior parte in studio e la restante minore dal vivo, presso il Café OTO di Londra durante la fine dello scorso tour, questo nuovo lavoro è un inquieto viaggio nel panorama jazz moderno, dove l’artista sfiora nuove modalità di composizione e, per la prima volta, si mette alla prova come cantante. Perché, come dice lei, la “bellezza sta nell’astratto della musica strumentale, ma non essendo questo un momento particolarmente bello, ho scelto un percorso più letterale. La voce è un bene per questo”. Composto da nove brani, è probabile che “FLY or DIE II: Bird Dogs of Paradise” possa essere una delle sorprese discografiche dell’anno e raggiungere un pubblico ancora più ampio. Perché è jazz, di quel jazz che può piacere anche a chi non mastica la materia quotidianamente. Lavoro importantissimo, consigliato ai fan di Miles Davis, Tortoise e The Comet Is Coming.

ANGEL OLSEN “All Mirros”

Jagjagwar

Quarto disco, terzo su Jagjaguwar, per la deliziosa cantautrice americana Angel Olsen. “All Mirrors” arriva dopo la raccolta “Phases” ed il non troppo convincente “My Woman”. Anche perché ripetere l’equilibrio di “Burn Your Fire For No Witness” non era proprio semplicissimo. Nato inizialmente con una modalità di registrazione scarna, il disco si è via via evoluto fra arrangiamenti orchestrali e corposi. Ne son venute fuori due versioni, una in solo con i brani accompagnati da strutture minimali, l’altra arrangiata con un’orchestra di 14 elementi. Si saranno giocati a sasso-carta-forbice la versione con cui uscire ed evidentemente quella con l’orchestra era la carta, mentre quella scarna era il sasso. Probabile poi che si giocheranno il jolly dell’edizione back to basics in un secondo momento. Quella che invece abbiamo per le mani è quella in full band che, probabilmente, ha consentito alla Olsen di esplorare nuovi mondi e sperimentare alter sfaccettature delle sue linee vocali, giocando con una certa classe tra pop e atmosfere gothic dark, di moda negli ultimi anni grazie a cantautrice bravissime, su tutte Marissa Nadler e Chelsea Wolfe. Il tentativo della Olsen, spesso riuscito, è quello di camminare proprio verso territori pop, mantenendo tuttavia una certa aurea di castità indie. “All Mirrors” è un disco introspettivo che parla di vulnerabilità e che descrive per filo e per segno questo nuovo percorso intrapreso dalla cantautrice. Nell’album ci sono almeno tre momenti particolarmente riusciti, ‘Lark’, ‘All Mirrors’ – la traccia che dà il titolo all’album – e la conclusiva ‘Chance’, eccellente summa del pippone sugli arrangiamenti descritto poche righe fa.