Dopo l’operazione commerciale Nymphomaniacil vecchio Lars Von Trier torna con La casa di Jack, un’opera brutale, viscerale e polisemica. La trama è frusciantemente molto semplice: gli Stati Uniti degli anni Settanta sono un luogo inospitale e pericoloso, Jack (Matt Dillon), ingegnere psicopatico con la compulsione per la pulizia ed il lavaggio, uccide in un raptus omicida una donna (Uma Thurman) che gli chiede insistentemente soccorso per strada; da quel momento la sua furia omicida si svilupperà in modo sempre più crudele, articolato e, come lui afferma nei suoi dialoghi con il misterioso Verge (un enigmatico Bruno Ganz alla sua ultima affascinante prova), artistico.

Il film si snoda su due binari paralleli: il dialogo tra Jack e Verge, vera e propria seduta psichiatrica che indaga le viscere della contorta mente criminale dell’omicida, e la cronistoria degli “incidenti” che sono orgogliosamente mostrati in tutta la loro tragicomicità.

Nelle interviste promozionali Von Trier definisce la casa di Jack «il film più brutale che abbia mai realizzato» e qui si può essere più o meno d’accordo anche se Antichrist non scherzava di certo. Quello che però prevale, dopo l’iniziale tensione costante legata alla naturale empatia per la vittima di turno, è il fascino del viaggio che Verge e Jack intraprendono (più o meno metaforicamente) nella mente malata di quest’ultimo. Numerosi i rimandi ai suoi precedenti film nonché la classica provocazione misogina (“Ho ucciso anche tanti uomini!” afferma Jack quando Verge gli chiede il perché le sue vittime appaiano tutte legate dall’essere donne profondamente stupide). Un film che ad un certo punto prenderà una piega tanto inaspettata quanto inevitabile e la colonna sonora da “Fame” di Bowie diventerà “Hit the road Jack” di Ray Charles e il viaggio è un viaggio senza ritorno.

Bentornato vecchio brutale provocatore, sei sempre il solito fottuto genio.