L’incipit è quello di una storia vecchia: ci sono due persone che si innamorano ma non possono stare insieme. Romeo e Giulietta, Paolo e Francesca, Aggiungi un posto a tavola, e così via.
Anche noi abbiamo fatto parte di questa schiera, anche se gli psicoterapeuti correggerebbero la mia definizione in: persone che si innamorano ma non stanno insieme per via di una scelta.
Noi ci siamo incontrate a lavoro e questo sarebbe già di per sé un impedimento, in certi ambienti di lavoro e in certe visioni del mondo. Il nostro problema era però – di nuovo – molto più “vecchio”: l’esistenza di una terza persona, di una relazione in essere, di impegni presi, di famiglie coinvolte. E anche l’ostacolo di pensarsi in una relazione omosessuale, al trentacinquesimo anno di vita, per la prima volta e inaspettatamente. Insomma, avete capito: colpi di fulmine, salti nel buio, rischi, parole, rincorse, sguardi, telefonate, messaggi, promesse. Fantasie, condivisioni, dubbi, tentativi, cadute, ritentativi. Scoperte, scenate, paure, rimpianti. Addii, e ancora promesse.
Ma questo racconto non rispetta l’ordine cronologico, né prende a riferimento il tempo come categoria immutabile. Questo racconto parla di come abbiamo cercato di dilatarlo, il tempo, fino all’ultima goccia, di come lo abbiamo stiracchiato e teso fino a sfibrarlo, per infilarci tra le sue maglie allargate oltre ogni limite e rallentare la sua inesorabile corsa verso l’ora di andare.
A questo ritmo estremamente relativo, quantico, einsteiniano abbiamo salito scale sollevando gambe improvvisamente pesantissime; abbiamo trascinato piedi per corridoi sempre troppo corti, dove le stesse facce incontrate agli stessi angoli si interrogavano sui nostri viaggi insensati.
Ci siamo date segreti appuntamenti senza parlare, in stanze delle necessità create da noi.
Un giorno ci siamo dette addio e il giorno dopo abbiamo trovato la scusa di andare insieme a trovare una collega che stava poco bene, giustificate ai nostri stessi occhi da questo nobile intento, un’opera di misericordia. Siamo andate a cucinarle una carbonara. Abbiamo rotto, impacciate, le uova in una ciotola, sorprese in questa improvvisa e semplice intimità; ci siamo sedute sul letto della nostra amica a chiacchierare, entrambe vivendo quel momento con intenso ed elettrico imbarazzo. Siamo uscite da quella casa in coppia, come eravamo arrivate, sebbene la cosa non fosse necessaria; ci siamo dirette alla fermata della tramvia.
Ed eccoci: anche per oggi si conclude la pausa pranzo, questo tempo prezioso, meno affollato, dove possiamo pronunciare qualcuna delle parole che abbiamo in mente. La fermata ha un nome per me esotico, “Federiga”; la speaker si sofferma inutilmente sulle vocali, rallenta, pare prenderci per scemi, o balbettare. Ogni volta ho la tentazione di correggere quella assurda G in una C. Siamo di nuovo a trascinare i piedi per rallentare questo tempo che ci separa da una nuova separazione. Servono motivi validi per rimanere insieme oltre il limite orario consentito dalla credibilità e il nostro di oggi sta per scadere.
La fermata si avvicina noncurante e, insieme a lei, il semaforo – è un semaforo pedonale. Ci guardiamo intorno come sempre si fa, automaticamente. Accanto a noi, la distanza di un avambraccio, c’è il palo giallo. Le macchine sfrecciano. La gente ha fretta. Sul semaforo c’è il sensore, dice: chiamata pedonale.
C’è chi dice che sia un placebo ma tutti noi continuiamo a usarlo, quando arriviamo ad un semaforo e aspettiamo più di dieci secondi; la mano va a toccare la superficie e una scritta si illumina, a rassicurarci sull’efficacia del sistema: attraverseremo quanto prima.
Ecco, in quel momento psichedelico, in quel guardarsi intorno, entrambe abbiamo compreso nel nostro campo visivo e nella sfera delle possibilità il sensore della chiamata pedonale. Entrambe, in un’altra situazione, non avremmo esitato ad allungare la mano. Invece, in quel brevissimo istante abbiamo deciso entrambe di non toccarlo, di aspettare, sperando che il verde non arrivasse mai, e prolungare quel tempo in cui ci limitavamo a pensare che il nostro tempo stava per scadere.
È stato un attimo, probabilmente il più romantico della storia del mondo: sguardi che scappano via dal sensore del semaforo, che si incrociano e scappano ancora, cercando di non farsi notare; abbiamo pensato la stessa cosa e facciamo finta di niente. In questa elettricità, ecco arrivare un vecchietto: deve attraversare anche lui e naturalmente allunga la mano a toccare il sensore. Tra poco si accenderà la scritta rossa e dovremo passare. Entrambe imprechiamo segretamente contro l’ignaro signore.
Nessuna delle due parla. Questo aneddoto non ce lo siamo mai raccontato, come fanno gli innamorati, come abbiamo fatto in altre mille occasioni. La tramvia passa con i suoi scricchiolii. La prendiamo in due direzioni diverse, perché diverse sono le nostre destinazioni: “Alamanni” da un lato, “Torregalli” dall’altro. Con sottile ironia: lei alla stazione, io all’ospedale.