Dopo il successo de “Il racconto dei racconti”, con Dogman Matteo Garrone torna all’antico, facendosi ispirare dalla cronaca nera: la vicenda su cui ruota il film è infatti quella nota come il delitto del canaro della Magliana che negli anni ’80 sconvolse l’Italia, soprattutto per la sua efferatezza. Il regista però vuole raccontarci tutt’altro.

Infatti Marcello (uno straordinario Marcello Fonte), titolare di un piccolo fondo adibito alla toelettatura dei cani nella periferia di Pinetamare, si discosta molto dal Pietro De Negri delle cronache della Magliana; la sua amicizia con Simoncino, pugile appena uscito di carcere, che vive di espedienti, perennemente alla ricerca di sostanze con cui sballarsi, è un’amicizia sincera, che vive sul filo dell’ira di quest’ultimo e della dabbenaggine di Marcello, illuso che dietro alla mole iraconda, imprevedibile e scomoda (soprattutto per gli altri negozianti, amici, costretti a sottomettersi ai suoi soprusi) di Simoncino, ci sia possibilità di redenzione. Questa illusione gli costa un giorno il carcere e la sua vita verrà sconvolta per sempre. Sullo sfondo il bellissimo rapporto di Marcello con la figlia Alida unica vera luce positiva in una pellicola dai toni cupissimi.

Garrone mette in scena la violenza generata dalla vendetta, scegliendo di mostrarne la mostruosità ma al tempo stesso l’estrema umanità, con una messa in scena e un’ambientazione volutamente lugubri dal saporepost-apocalittico. Un film che è stato anche giudicato “eccessivo” da una critica salottiera che non hanno digerito le scene di violenza e il voler riportare alla luce una vicenda così efferata; in realtà “Dogman” è sì cinema crudo e tremendo perché apre uno squarcio sulle sofferenze represse degli emarginati e degli ultimi ma è cinema necessario, poetico che racconta di noi, della nostra natura in maniera autentica e potente e che entra sicuramente nel novero delle migliori pellicole dell’anno.