Chiamami col tuo nome, firmato da Luca Guadagnino, tratto dal romanzo di André Aciman, è candidato a ben 4 Premi Oscar tra cui la sceneggiatura di James Ivory.

Nell’Italia del 1983 Elio Perlman, un diciasettenne italoamericano di origine ebraica, vive con i genitori in una villa del XVII secolo. Oliver, è uno studente ventiquattrenne che lavora al dottorato con il padre di Elio, docente universitario. Elio viene immediatamente attratto da questa presenza, e il rapporto con Oliver che gli cambierà profondamente la vita.

Guadagnino chiude così l’ideale trilogia del desiderio riprendendo l’estetica-narrativa di Io sono l’amore (2009), evitando le cadute grottesche di A Bigger Splash (2015) lasciandole solo marginali. Il regista è spesso accusato da una certa critica che guardi all’Italia non da italiano, ma da straniero.

A prescindere dai giudizi personali, il regista dimostra una sua poetica di sguardo cinematografico. Guadagnino eccede spesso verso un estetismo cinefilo alla Bertolucci (come lui stesso afferma) quindi alla Renoir e, oseremmo dire, anche alla Visconti. Si abbandona spesso al trash come le masturbazioni con una pesca sul brano “Radio Varsavia” di Battiato.

Il film presenta sì degli aspetti che stridono come unghie sulla lavagna, ma c’è qualcosa di talmente intrigante che ti fa rimanere lì nonostante tutto. Perché? Sarà forse la ricerca di una bellezza estrema dichiarata fin dai titoli di testa che prosegue in ogni singola inquadratura, oppure nella natura, in quella bellezza del nord Italia, o anche nei corpi delle statue greche o nella musica. Anche la dimensione temporale – nelle scene ripetute e giocate sulla dilatazione e negli orologi che spuntano in ogni dove – diventa testimonianza dell’effimera e, allo stesso tempo, infinita situazione d’amore vissuta dai protagonisti.

E come non citare il monologo finale che da solo vale tutto il film, dell’essere capaci di vivere il momento: l’elogio alla sofferenza.