Passati quarant’anni dall’adattamento cinematografico del libro di Agatha Cristhie di Sidney Lumet, Kenneth Branagh riporta sul grande schermo “Assassinio sull’Orient Express”. Il “baffuttissimo”, ostentatamente truccato, Hercule Poirot dopo un abile e rocambolesco incipit è atteso a Londra. Bloccato sul convoglio a causa di una valanga di neve e in seguito a un delitto inizierà la sua indagine in cui tutti i passeggeri (un cast stellare) sono sospettati. Se nell’adattamento del 1974 la vera anima del film risiedeva nei vari interrogatori che facevano emergere le caratteristiche dei singoli personaggi, in questa recente trasposizione non si può dire lo stesso. Nonostante un cast di tutto rispetto, il regista non riesce a rendere credibili personaggi interpretati da una Penélope Cruz o da una Judi Dench. Le forzate sequenze d’azione, una certa tendenza a strafare e un’eccessiva drammaticità rendono il tutto troppo eccessivo.

Il pregio del film è forse quello di staccarsi dalla fedeltà del testo originale per farne un prodotto diverso, interessante sì, ma zoppicante. Ecco quindi un Poirot (lo stesso Branagh) introspettivo, figlio del nostro tempo, consapevole di essere “personaggio e star-detective” nato dalla penna di Agatha Cristhie. La vera tensione filmica è nella ricerca e il confronto con il proprio passato e nel dare ragione al cuore o alla mente. Ne deriva quindi un viaggio introspettivo con la conseguente messa in discussione per lo stesso personaggio, del suo status di personaggio. L’adattamento, seppur non totalmente riuscito, regala soluzioni stilistiche molto interessanti. Il regista consapevole della limitazione dello spazio “claustrofobico” del treno decide quindi di puntare su inquadrature dall’alto, sul fuori campo e piani sequenza che restituiscono una ventata d’aria fresca alla restante pesantezza filmica.