Blade Runner 2049 non è solo un sequel del capolavoro del 1982 di Ridley Scott, ma riesce a mantenere, con grande rispetto, il contatto con il passato conservando un’autonomia critica.

Dopo trent’anni i replicanti della Tyrell Corporation sono stati messi fuori legge, Niander Wallace (Jared Leto) ne rileva l’attività. L’agente K (Ryan Gosling), un blade runner di ultima generazione, scopre un segreto che potrebbe cambiare il precario equilibrio di una Los Angeles grigia, piovosa e dispotica: da qui ha inizio la sua indagine.

Se Blade Runner faceva della citazione (Metropolis e 2001: Odissea nello spazio) la sua cifra stilistica e della cultura postmoderna una bandiera, Blade Runner 2049 riprende la tematica dello sguardo (con tanto di occhio che si apre nella prima inquadratura) per parlare del cinema, attraverso il cinema e per il cinema.

Denis Villeneuve ci consegna un’opera che dimostra una grande maturità registica grazie anche a una fotografia curata al millimetro (Roger Deakins) e con una musica (Jóhann Jóhannsson, Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch) che non reitera il passato. Possiamo così non solo ri-vedere Harrison Ford senza sguardo nostalgico, ma guardare l’immagine per il suo statuto di immagine. Una fantascienza vecchia maniera ci traghetta in un cinema di confine in cui il digitale rimedia l’analogico per tornare, nuovamente, al digitale in un loop senza fine.

Umana, replicante o ologramma che sia (alla fin dei conti sono la stessa cosa) il futuro è donna, capace di riflettere su ciò che contraddistingue l’essere umano: l’emotività. Un mondo dove la differenza fra uomo e replicante è annullata: chi prova sentimenti e lotta per “ciò che più è umano” sono le repliche o gli ologrammi e gli uomini, solo repliche di se stessi.

E così come l’indovino Tiresia acquista la veggenza solo dopo la cecità, il regista riflette su realtà e finzione, vedere e non vedere, uomo/replicante e ologramma, analogico e digitale invitandoci a non vedere per guardare nuovamente.