A Firenze si calcola che il verde pubblico comunale liberamente fruibile dai cittadini copra una superficie di 3.750.000 metri quadri. Questa sconfinata vastità ci mette di fronte ad una pragmatica impellenza: il pic nic.
Le déjeuner sur l’herbe dipinto nel 1863 da Manet ha creato nel nostro repertorio di immagini lo stereotipo bucolico e perfetto di come deve essere un pic nic. Innanzitutto francese, e poi raffinato e sognante.
Scordiamoci tutto questo. La London picnic association è stata fieramente fondata in Inghilterra nel 1802, e nasceva come congrega arrufona simil-teatrale con rituali di pranzo condiviso in casa dove, in barba all’etichetta, ognuno portava quel che c’era e si nobilitavano per così dire gli avanzi. Una sorta di moderno “raduno svuota-frigo”.
La parola pic nic deriva altresì dal francese piquenique, parola ufficializzata nel 1740 con il significato di “prendere qualcosa di poco valore”.
Facendo un salto di 277 anni, quello che oggi rende un pic nic tale è l’immancabile coperta a quadri, gli occhi a guardare il cielo, i piedi nudi, le orde di formiche, i cambi improvvisi del meteo, le prime scottature per il sole (dice un vecchio adagio di diffidare dei mesi con la r per la tintarella), gli amici, un pallone, il cane, un lavoro a maglia da finire, il sudoku, i buoni propositi per l’estate, una chitarra, il frisbee, qualche birretta, i tovaglioli che non sono mai abbastanza, i piatti di carta colorati biodegradabili, le cannucce, un buon libro, la schiacciata fatta lievitare una notte, l’hummus, le carotine, qualche dolcetto.
Nell’aspettativa del mio pic nic perfetto c’è un cestino di vimini con gli scomparti per la bottiglia di vino bianco ghiacciato, il servizio di porcellana cinese, le posate in argento e la tovaglia di lino. Ma tra l’aspettativa e la realtà ci sono Boboli, le Cascine, le Scuderie e quegli avanzi in frigo che sono la scusa perfetta per uscire di casa infilando tutto a casaccio in una borsa di stoffa per godermi la bella stagione.
di Martinaverde Stoppioni