Pioveva il 28 Febbraio, c’era il Teatro Verdi imballato ed avevo il biglietto per il concerto di Franco. Battiato, lui. Musica, emozioni, bellissima atmosfera. Sulle note di Prospettiva Nevskij avevo le lacrime; poi, dopo pochi istanti, si è aperto in me il terzo occhio. La magia poetica di Battiato si è tramutata, con la velocità in cui Verdini è diventato una costola della maggioranza, in una splendida accozzaglia di parole senza senso, ad effetto, perfette. PARACULE. Il mio cervello è uscito dai misticismi inventati o dalle ambientazioni improbabili (“pieni gli alberghi a Tunisi …”), dalle invettive vuote (“mandiamoli in pensione i direttori artistici”), dai giochi di parole che saccheggiano il patrimonio musicale italiano (“Chi vi credete che noi siam… noi siam come le lucciole”) o dalle vuote citazioni di parole in improbabile inglese (“Shock in my town, Velvet Underground”). Una frase è echeggiata in me: questo signore che sta dicendo? È l’arte, mi rispondono. È il Maestro. È Franco.
Provo ancora di più stima ed amore per questo autore, che con una paraculata degna delle argomentazioni migliori per un quesito referendario, ha aggirato tutti gli altri cantautori, si è incarnato in un mistico del nuovo millennio a base di the verde e carcadè. Il mito Battiato che cade per risorgere: ho percepito in lui il mestierare, l’alchimia dei suoi pezzi, musicalmente stupendi, ma composti nelle parole come con una ricetta quasi standard. Una frase stupenda, assonanze verbali geniali e riferimenti spazio temporali casuali: con la rima baciata, alcuni, sullo stile del grande Freak Antoni. Un the al caffè della Paix diventa improvvisamente un Fernet ad Hammamet.
Amo ancora di più Franco. Perché fa emozionare vendendo fumo. Del resto gli inglesi hanno avuto la grande truffa del rock’n’roll, e noi la grande truffa del cantautore. Tutto quadra.