Se hai passato buona parte della vita a rimestare stufati in una bettola abbarbicata sulla cima di una montagna che non ha mai visto meno di mezzo metro di neve, in uno stato noto al mondo quasi unicamente per la rimarcabile e quasi paradossale frequenza con cui vi si manifestano le catastrofi naturali più varie; se sei cresciuto in un continuo via vai di bifolchi sporchi, stanchi, affamati e puzzolenti d’unto; se ogni santo giorno, attraverso i vetri appannati, il panorama non è altro che una distesa bianca spaventosamente omogenea; se insomma questo è il contesto e ammettiamolo, un contesto che metterebbe alla prova i nervi di chiunque, direi che non è affatto scontato aver voglia di stamparsi in faccia un sorriso e accogliere con una calorosa dose di buon umore chiunque transiti dalle tue parti. Rifocillargli i cavalli, vendergli caramelle a poco prezzo, dargli la possibilità di scaldarsi un po’, magari offrirgli un caffè, che anche se siamo in un emporio, con un gelo così un caffè non si nega a nessuno.

Un bello sforzo, va detto. Una cosa mica da poco l’accoglienza. L’accoglienza è importante.

Un caffè sciacquato non sarà la fine del mondo ma è comunque una specie di simbolo. Si capisce, quindi, che scoccia un po’ se di punto in bianco arriva qualcuno che per tutto ringraziamento decide di farti saltare la faccia con una fucilata. Non bisognerebbe mai mancare di rispetto a chi ti versa un caffè, di peggio c’è solo offrirne uno in mala fede. C’è gente che ci sputa dentro, ad esempio, e già questo scherzetto da prete mi è sempre sembrato inutilmente eccessivo. Ma c’è anche chi non si accontenta e potrebbe decidere di condirlo con qualcosa di peggio è prima di rendertene conto stai già riverniciando le pareti con sangue misto a frattaglie.

 

Sono i dettagli che ci fanno perdere la fiducia nella gente, perdio. Se vuoi ammazzare qualcuno tutto bene, da certe parti è lo sport nazionale. Ma non dopo il caffè o non con il caffè. Certe cose dovrebbero rimanere estranee alla follia dell’universo, mantenersi pulite. Certe cose andrebbero tutelate, Quentin.

Ma in fondo bisogna darti atto di aver fatto un lavoro come non ne facevi davvero da un po’, una specie di splendido condensato di gioia, sangue, follia e violenza gratuita. I cacciatori di taglie, i denti che volano, diligenze cariche di cadaveri che avanzano nella bufera, vetusti ufficiali sudisti per cui la guerra di secessione non è mai finita, impiccagioni fai-da-te, momenti di tremante commozione che terminano in una doccia di cervella e la consueta sfilata di attori indimenticabili che riuscirebbero a far cantare anche il cuore più arido. A coronare il tutto, un cartello affisso sopra il lavello della cucina: “cani e messicani qui non possono entrare”.

E se una benedetta tazza di caffè è davvero l’unico problema in più di tre ore di film, per questa volta, Quentin, in fondo ti possiamo anche perdonare.