Erano i primi anni duemila. Ero giovane e con un sacco di tempo libero. Grazie al mio amico S. avevo appena scoperto il cinema e mi dedicavo di buona lena allo scandaglio di produzioni militanti, con preferenza verso il bianco e nero, il muto e le avanguardie est europee. Progettavo di darmi alla sceneggiatura di cortometraggi ermetici, o di girare piccoli film contemplativi con infiniti piani sequenza su marciapiedi vuoti. Non immaginavo che, presto, qualcosa avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

In un pomeriggio di fine inverno, dopo infinite insistenze contrapposte alle mie ancor più infinite resistenze, S. mi mostrò un vhs registrato a notte fonda, comprensivo di intervalli pubblicitari. Un horror, il suo preferito. “Fa un sacco ridere” – mi aveva detto inserendo la cassetta nel videoregistratore. La cosa non mi era piaciuta affatto, considerato che per me l’horror iniziava e finiva con gli zombie nel supermercato di Romero. Finita la critica sociale, finito l’horror. Sulla costola, scritto col pennarello, si affacciava il titolo.

La casa.

Ottantacinque minuti dopo ero un’altra persona, senza voler necessariamente dare alla faccenda accezioni positive o negative. Semplicemente, mi ero trasformata. Non solo all’improvviso avevo tutta una serie di nuove certezze sull’horror, tipo che la sua più grande forza non fosse tanto il far paura quanto l’essere tremendamente divertente, ma ero anche la felice neo proprietaria di una cosa per me del tutto inedita: l’amore per il cinema.

Nota: quando dico amore per il cinema, non intendo per quel film o per quell’altro, ma proprio per il pacchetto completo, l’intera piazza, tutto. La fascinazione per il mezzo, uno slancio forse anche un po’irragionevole (amore, appunto) che rende onnivori, curiosi, voraci. 

Non so bene come, ma quella pletora di arti mozzati, vomito arcobaleno, sangue al lampone ed effetti speciali realizzati col budget di un BigMac sono stati la mia rivelazione. Però non basta. Insieme alla deflagrante passione per tutto un parco filmico che fino a quel giorno non avevo neanche preso in considerazione, Sam Raimi mi ha fatto un altro regalo: una specie di devoto rispetto verso chi il cinema lo fa, e lo fa perché ha bisogno di farlo, perché deve dirti qualcosa, perché quello è il suo modo di comunicare. Perché, in barba a contesti e condizioni, non può proprio farne a meno.

* * *

Circa quindici anni dopo sono seduta in un bar con un tizio appena conosciuto. Mi ha scritto un’email chiedendomi di incontrarci, si chiama Alessio e ha girato un film. Mi domanda se posso vederlo e scriverne qualcosa, anche qualcosa di brutto, se non mi piace. Mi spiega che ci hanno lavorato solo eroici volontari, che l’hanno fatto quasi tutto in una casa al confine con l’Emilia Romagna, che è un horror e che fa anche ridere. Déjà-vu.

A partire da qui, ogni ulteriore considerazione risulterebbe ridondante. Basti sapere che ci sono tre cinefili sociopatici desiderosi di conoscere esponenti dell’altro sesso, un’inserzione pretestuosa per un servizio fotografico, la sopracitata casa nel bosco, una seduta spiritica e litri di sangue e frattaglie, oltre a una colonna sonora incredibile, un lessico deliziosamente surreale e una serie di finti programmi tv che da soli valgono tranquillamente la visione. Potrebbe risultare ridondante, dicevamo, però una cosa la aggiungo. Che è bello che ci siano film così.

Se vi fosse venuta voglia di dargli uno sguardo, siete fortunati. Lo trovate in proiezione gratuita venerdì 26 febbraio alle 21.30 all’Associazione Mariano Ferreyra, in via Alfani 13/r, Firenze. Se quella sera avete impegni, seguite le sorti di Possessione Demoniaca e di Alessio Nencioni su possessionedemoniaca.wordpress.com.