La prima volta che ho intervistato Marracash è stato nel 2008. Io avevo, bene o male, cominciato da poco a scrivere a livello professionale, lui era appena entrato nel giro di quelli che contano. Almeno a livello mediatico perché, ça va sans dire, c’è una bella differenza tra l’essere riconosciuti e l’essere bravi. O, cosa assai più complessa, l’avere un seguito.
Il suo tormentone di lancio, Badabum cha cha, aveva preso il controllo dell’airplay dei grandi network e non sembrava volerlo restituire. Il rap italiano, dopo anni di oblio mediatico, era tornato in auge ventiquattro mesi prima, sull’onda del successo subitaneo – e assolutamente inatteso – di Mondo Marcio (milanese, poi sparito una volta uscito dalla scatola), dei Club Dogo (milanesissimi e ancora in apparenza ben lontani dal dimenticatoio) e Fabri Fibra (marchigiano, ma rilocatosi a Milano). Marra non è un improvvisato, una scimmietta scelta dalla major di turno per ballare a tempo, munito di ombrellino luccicante: è uno che si è fatto il mazzo, che è partito dal basso, e si è trovato al posto giusto nel momento giusto. E che abbia talento, è innegabile.
Certo, vaglielo a spiegare a quei rosiconi degli anni Novanta cresciuti a pane e posse: c’è un grosso equivoco alla base del rap italiano, derivante dal fatto che l’arte della rima ha cominciato a circolare, dalle nostre parti, nel contesto dei centri sociali, adottandone l’estetica. E, in seguito, parte dell’ideologia. Ma l’hiphop non è mai stato un movimento politico, al massimo sociale. E per quanto concerne la visione politica, be’, i rapper sono interessati al Capitale, ma sicuramente non a quello di Marx. Mica facile quindi il salto della quaglia: passare dalle battle nei centri sociali ai video patinati di MTV è un qualcosa che si paga, ed ecco che il primo concerto fiorentino di Marra (alla Flog) è praticamente deserto.
La credibilità e il pubblico, Fabio Rizzo (questo il nome all’anagrafe) se li è costruiti negli anni, alla vecchia maniera: facendo concerti e macinando chilometri. Certo, avere alle proprie spalle la major artefice del rilancio commerciale del rap in Italia (l’Universal) è condizione fondamentale per il successo, ma non lo garantisce in automatico.
La mia strada si incrocia di nuovo con quella di Marra nel 2011, questa volta la cornice è il Viper Theatre. Io, tramite il progetto Local Heroes, che curavo all’epoca (insieme al brand di streetwear Gold e all’agenzia di eventi Switch), mi stavo occupando di organizzare l’apertura, ossia la lista di artisti che sarebbero saliti sul palco prima del nome grosso in cartellone, con l’obiettivo di rompere il ghiaccio e scaldare il pubblico per la star di turno. Avevo chiamato un gruppo fiorentino e uno maremmano. Non capita spesso di salire sul palco del Viper e quindi i ragazzi, in pieno spirito hiphop, si erano portati dietro gli amici, la crew. Dopo il sound check, ci infilammo tutti nei camerini per mangiare qualcosa e ricaricare le batterie in vista del live che avrebbe avuto luogo di lì a breve.
Sarà stata la convivialità del momento, sarà stata la fame nervosa, fatto sta che ci divorammo diverse teglie di lasagne. Comprese, in parte, quelle del Marra che non la prese proprio bene e, tramite interposta persona, ce lo fece sapere.
Ecco, il rap in Italia è spesso come una teglia di lasagne, fredda e un po’ smangiucchiata. Era gustosa, ma in quel piatto ci hanno già mangiato e non è più neanche freschissima. La stessa cosa vale per Marra, che è un po’ come un macchinone con il freno a mano tirato: è bravo, ha l’atteggiamento hardcore, ma poi fa i pezzi con Tiziano Ferro e ti domandi, semplicemente… perché?
L’occasione per mettere (forse) la parola fine alla questione ci è data proprio in questi giorni. Il suo concerto fiorentino è alle porte. L’11 febbraio sarà al Viper: ci andrete o rimarrete a casa? Io, nel dubbio, metto a scaldare il forno.
di Davide “Deiv” Agazzi