Alla fine del 2004 ho fatto la valigia e me ne sono andata nel sud della Svezia a trovare un amico. Dicembre era agli sgoccioli, e per Capodanno abbiamo deciso di prendere un treno e scendere fino a Copenaghen per vedere Christiania, questo luogo mitico di cui tutti – almeno all’epoca – parlavano. Non sapevamo che un paio di giorni prima c’era stato un blitz bello violento nel quartiere. Pestaggi, minacce di sgombero, queste cose qui. Come si può immaginare, quindi, gli abitanti non erano troppo entusiasti di salutare l’anno nuovo, e verso mezzanotte Christiania era un paesaggio silenzioso fatto di finestre chiuse.
L’unico locale aperto era una specie di pub modello vecchio west, semivuoto, dove un ubriaco con delle ali da farfalla ci intrattenne raccontando come avesse passato gli ultimi mesi in Thailandia, a disseppellire corpi ricoperti di fango. La sua ragazza lo aveva lasciato, e lo tsunami che poco dopo si era abbattuto sul Sud Est Asiatico gli era sembrato un richiamo del destino. “I cadaveri – ci spiegava – hanno lo stesso odore dello sporco sotto le unghie dei piedi”. Dopo due ore di particolari raccapriccianti intervallati da crisi di pianto convulso, ci siamo gentilmente congedati e abbiamo deciso di avventurarci in una passeggiata nel buio.
Lungo i sentieri che costeggiavano i canali ghiacciati, la neve ci entrava nelle scarpe e si scioglieva a contatto col calore dei piedi, per trasformarsi in una melma gelida che ci inzuppava i calzini. Le case, costruite con i materiali e le forme più strane, erano mute e bellissime. Lontani chissà quanto dal primo lampione, pur essendo in piena città, riuscivamo a contare le stelle. A ripensarci oggi era tutto molto bello, ma mentre affondavo fino quasi al ginocchio in quella poltiglia candida riuscivo solo a pensare a quanto facesse dannatamente freddo, a quanto tempo avremmo dovuto aspettare per il primo treno del mattino, e alla possibilità di morire assiderata nel frattempo. Mi veniva da piangere per lo sconforto, ma avevo paura che se lo avessi fatto le lacrime mi si sarebbero congelate negli occhi.
Nel nuovo film di Iñárritu, Leonardo Di Caprio vaga per giorni in alcuni dei luoghi più inospitali del pianeta, arrancando nella neve, mangiando carne cruda, scampando agli attacchi di orsi inferociti e indiani contrariati, cauterizzando ferite con la polvere da sparo e sventrando cavalli per sopravvivere al freddo della notte, finché l’alba non si affaccia all’orizzonte affilata come una zanna scoperta. Probabilmente, quella sera a Christiania se la sarebbe cavata molto meglio di me.