di Leandro Ferretti
Il filobus io me lo ricordo. In modo ancestrale. Era detto anche i’filobusse, e già all’epoca delle mie memorie era in fase di accentuata morienza. Era un mostro strano, per citare Guccini, che correva libero, ma attaccato a due fili con la strada particolarmente segnata, per parafrasare De Gregori.
La fortuna del filobus a Firenze era iniziata dopo la metà degli anni Trenta, e paradossalmente era incrementata nel momento in cui, alla fine degli anni Cinquanta, fu smantellato il sistema del tram. Era destinato a raggiungere soprattutto zone periferiche della città come Fiesole, Settignano, Trespiano e le nuove periferie. Da Firenze Nova alla parte che ampliava il vecchio quartiere di Gavinana. Era l’elettrico caravanserraglio della modernità di una città in profonda mutazione, insomma. Procedeva spesso a scatti, come un’automobilina elettrica un po’ bizzosa, e era accompagnato da un sibilo prolungato, come di una sirena, che cresceva con l’aumentare della pur modesta velocità.
Lo ricordo verde e maestoso passare di filo in filo, schivando un traffico assai più modesto di quello odierno. Raggiunto il momento di maggior fulgore nel 1962, la fortuna del filobusse tramontò nel volgere del decennio successivo: nel 1973 l’ultima linea cessò le corse per trasformarsi in automobilistica, e le vetture restanti furono cedute alla Grecia (già allora interessata ad acquisire quel che veniva da questa parte d’Europa) per solcare le strade di Atene. E dove passava il filobusse oggi in qualche parte c’è la tranvia. Perché tutto torna.