Due cose:

La prima. Faceva caldissimo e la coda era notevole fuori dallo Spazio Alfieri dove sono stata a guardare The Lobster, Premio della Giuria 2015 a Cannes.

La seconda. Lobster, oltre a essere il font più gettonato da studi grafici con un senso estetico un po’ retrò, è anche la traduzione inglese di aragosta ossia l’animale scelto dal protagonista del film: un panciuto, miope e sorprendentemente poco corrucciato Colin Farrell.

Capita a tutti di ritrovarsi single in un periodo della propria vita, ma non necessariamente siamo tutti scortati in un hotel e costretti a scegliere un compagno/a in quarantacinque giorni, pena la trasformazione in un animale.

Alla fine della proiezione, non ho capito se la quinta prova del regista greco Yorgos Lanthimos mi sia piaciuta o meno. Il film mi ha divertito moltissimo in alcuni tratti: vedi la battuta del perché i solitari ballano la musica elettronica per non avere approcci promiscui. A tratti è stato invece terrificante perché se non trovi la tua anima gemella verrai trasformato in un animale a tua scelta.

Dall’altra parte dell’albergo, nella foresta, vivono i ribelli, così detti solitari, che rifuggono qualsiasi tipo di legame, sia emotivo che sentimentale. Si passa da un eccesso all’altro: dal pessimismo al grottesco, da scene dolcissime – Colin dice a Rachel che essendo entrambi miopi potrebbero essere compatibili e dunque addirittura innamorarsi – a spezzoni molto crudi e violenti i cui paradossi somigliano moltissimo al reale.

Senza scomodare Meetic, Tinder, Grinder e compagnia bella, dopo 118 minuti passati su una sedia scomodissima, il segno che il film lascia è così profondo che rischia di fare muro ai suoi spettatori. La cosa importante è, più che cercare di dare un significato al film, cercare di capire cosa esattamente voglia dire la parola compatibilità oggi.