di Caterina Liverani
Un americano tutto d’un pezzo che ha trovato la sua fortuna nel cinema europeo, un repubblicano fino al midollo dall’anima progressista, attore durissimo sullo schermo, ma cordiale e pacato dietro la macchina da presa. Clint Eastwood a quasi ottantacinque anni e a soli sei mesi dal suo ultimo film da regista, l’adattamento del musical Jersey Boys, è nuovamente nelle sale con American Sniper, tragica parabola tratta dall’autobiografia di Chris Kyle, cecchino appartenente ai Navy Seal, interpretata da Bradley Cooper e Sienna Miller.
Sono passati dieci anni dal grande successo di Million Dollar Baby, la storia di rabbia, di disperazione e di riscatto della pugile professionista Maggie Fitzgerald, che fruttò a Eastwood le sue seconde statuette come miglior film e miglior regista dopo Gli spietati e le candidature per Mystic River. Dieci anni di attività dedicati principalmente alla realizzazione di pellicole sulla storia recente, raccontata da punti di vista inusuali, come la guerra e la sua iconografia in Flags of Our Fathers, i peccati del corpo di polizia di Los Angeles negli anni Venti in Changeling, il difficile processo di un’identità nazionale per il Sud Africa con Invictus e il risvolto umano della controversa figura di Hoover in J. Edgar. Decisamente più intimisti Gran Torino, sull’intenso rapporto tra un ragazzino cinese e il suo vicino di casa, il veterano della guerra in Corea ed ex operaio della Ford, Kowalski (nel quale Clint Eastwood ha regalato una delle sue interpretazioni più memorabili), e Hereafter racconto corale di esperienze di contatto ravvicinato con l’aldilà.
«Mi piacciono le storie che approfondiscono le vite di persone di cui magari abbiamo solo sentito parlare, perché impariamo qualcosa sugli altri e inevitabilmente anche su noi stessi» ha recentemente dichiarato proprio a proposito di American Sniper e della passione per una ricerca interiore fatta di storie che sondano i risvolti più profondi dell’animo umano, i più difficili da comprendere e da raccontare. Dichiaratosi profondamente contrario alle guerre in Iraq e Afghanistan, Clint Eastwood si propone, infatti, di concentrarsi anche sul versante più privato della controversa vita di Kyle, scomparso nel febbraio 2013 per mano di un militare provato da una grave forma di stress post traumatico. Bradley Cooper, la cui massiccia trasformazione fisica per il ruolo del tiratore scelto ricorda quella dell’esile Hilary Swank in Million Dollar Baby, ha affermato quanto questo progetto rappresenti un traguardo sognato per molto tempo: «Avevo cercato degli ingaggi sia per Flagsof Our Father che per Gran Torino. Questa volta ce l’ho fatta!».
L’abitudine a non gridare mai «Azione!» all’inizio di una ripresa, imparata sui tantissimi set western perché «gli uomini si innervosivano e i cavalli si imbizzarrivano», ma il sedersi sulla sua sedia e dire agli attori con tutta la gentilezza di quella voce lenta e profonda «Quando siete pronti», il circondarsi sempre dei soliti fidati collaboratori e il non sprecare troppe energie in ciack infiniti, hanno reso i set di Clint Eastwood una specie di nirvana per gli attori. Affermazioni come «sorprendentemente divertente» e «sotato di una sicurezza istintiva» sono quello che dicono di lui. «Tutto ciò che faccio come regista si basa su quello che preferisco come attore» replica serafico. Capace di combinare dei cast impeccabili, con grandi star al fianco di caratteristi meno conosciuti, Eastwood ha sempre affermato di credere nei propri attori. «Avevamo le stesse identiche intenzioni» ha raccontato Leonardo Di Caprio dopo le riprese di J. Edgar.
«Ho detto al mio agente che d’ora in avanti lavorare con qualsiasi altro regista che non sia Clint, potrebbe essere un problema» ha scherzato Angelina Jolie mentre girava Changeling. Una gestazione piuttosto lunga quella di American Sniper iniziata già prima della tragica scomparsa di Chris Kyle; il film avrebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg, che ha abbandonato il progetto, sembra per questioni di budget. Clint Eastwood torna dunque a raccontare la guerra dopo quasi un decennio da Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers e, rispondendo a proposito della sua longevità artistica, spiega di essere dovuto arrivare fino a qui per sentirsi a suo agio in questo ruolo. «Ci sono registi molto più giovani che non provano neppure a cimentarsi con quello che potrebbe farli crescere ancora, mentre il segreto sta proprio nel cambiare.»