A ottobre è uscito Parabolabandit (Morr Music), primo album di Leila Gharib, in arte Sequoyah Tiger, giovanissima e poliedrica artista veronese. In attesa del suo concerto al GLUE di Firenze il prossimo 16 dicembre, le abbiamo fatto qualche domanda.
Una delle cose che colpisce osservando il tuo lavoro è la cura che hai per tutti gli aspetti della tua produzione – dal suono, ai video, fino alle copertine degli album, che realizzi personalmente. Questa visione d’insieme nasce con le tue idee musicali o è uno studio che fai a priori?
“Nasce dalla musica. Gli elementi visivi sono un’espansione del suono, elementi che lo sostengono. In tutti i progetti che ho attraversato, ho sempre avuto un’attitudine ad allungarmi verso altri linguaggi, tecniche, strumenti per immergermi di più nella materia sonora, anche in un senso strettamente artigianale. Durante la composizione dei brani mi aggrappo spesso alle immagini: influenzano il colore, l’emotività e l’andamento degli arrangiamenti. Mi butto volontariamente in queste catene di input, di rebus con soluzioni aperte e mi fa piacere che tu riconosca questa visione d’insieme”.
Un altro aspetto che fa pensare a un’estetica multimediale è la presenza della coreografa e danzatrice Sonia Brunelli durante le tue performance (e recentemente anche nel video di Punta Otok). Come è nata la vostra collaborazione? E come lavorate insieme per i vostri live?
“Con Sonia ho formato il gruppo di performing arts Barokthegreat nel 2008, abbiamo prodotto molti spettacoli sperimentando la relazione tra suono e gesto, luce e scenografia. Il teatro ci ha dato l’opportunità di ampliare la visione e, grazie alla scenotecnica, abbiamo costruito habitat artificiali in cui agiscono danzatori e musicisti. All’inizio del 2016, con Sequoyah Tiger, ho provato una serie di live in solo e con Sonia ho lavorato sulla presenza della figura con piccoli movimenti e azioni performative, come lo sventolare di una bandiera. Subito si è sentita la disponibilità del pubblico ad assimilare immagini di natura diversa, abbiamo capito che un concerto poteva essere trattato come una nostra performance basata principalmente sul suono, la voce e i nostri corpi. Quando iniziamo a costruire il live partiamo da una scaletta musicale di brani, a quel punto chiusi e non più adattabili, e cerchiamo di capire quali canzoni hanno la potenza di incalzare azioni o sequenze coreografiche, fino a costruire una drammaturgia”.
Nel tuo ultimo lavoro discografico “Parabolabandit” (Morr Music 2017) le idee e i riferimenti già presenti nell’ottimo EP “Ta-Ta-Ta-Time” (Morr Music 2016) vengono sviluppati, declinati fino a riempire forme più complesse. Ci racconti com’è stato il processo di elaborazione di questo album?
“Le prime intenzioni già presenti nella lavorazione del primo Ep Ta-Ta-Ta-Time si sono sviluppate e potenziate sempre all’interno del formato canzone, portando avanti soprattutto la cura del suono della voce, cercando un’espressività diversa per ogni brano attraverso delle ricette di effetti. Ho seguito un approccio empirico, un avanzamento che includeva scrittura, registrazione e mix in una fase unica e non lineare, in modo da utilizzare anche il missaggio delle parti come via di composizione. È stato un processo solitario e intenso”.
Già da “Ta-Ta-Ta-Time” il tuo sound è molto riconoscibile e l’uso che fai dell’elettronica e degli altri materiali sonori ricorda atmosfere vagamente anni Ottanta – e, in pezzi come “Brilliant One”, anche precedenti. Si tratta comunque di suggestioni sospese, che sembra tu abbia assimilato e superato creando un risultato che non è derivativo ma fortemente attuale. Puoi spiegarci cosa ti affascina del sound dei decenni passati e come hai pensato di integrarlo con il tuo mondo sonoro?
“Essendo la voce il cardine del progetto, mi appassiona la melodia, a qualsiasi epoca appartenga. In particolare nelle melodie della musica anni ’50 – ’60, in gruppi come ad esempio Everly Brothers, The Andrew Sisters o nelle produzioni di Joe Meek, c’è qualcosa che mi attrae: sono profili melodici leggeri ma raffinati e utilizzano leve armoniche e una cura del suono che colpiscono. Non si tratta di nostalgia e non sono stata mossa da un desiderio di integrazione, ho cercato un sapore fuori dal tempo”.
Hai uno spazio che prediligi per le tue performance? Preferisci mantenere una distanza fisica – ad esempio, stando su un palco – o avere una situazione più a contatto con il pubblico?
“Abbiamo provato spazi molto diversi tra loro nell’ultimo anno, piccoli e grandi club, circoli, centri d’arte contemporanea e pub. Per come abbiamo costruito il live, lo spazio ideale è il club: abbiamo bisogno di un distacco dal pubblico e quindi il palco è fondamentale, un supporto tecnico calibrato per l’ascolto del suono e la visione. Nel club il pubblico è posizionato in piedi e decide se stare o andarsene, decide anche come accogliere il suono, se ballare o stare fermo. È un luogo che conduce ad una fisicità del pubblico che è una dinamica necessaria per poter lasciarsi andare, ognuno a proprio modo”.
Hai progetti in cantiere di cui vorresti parlarci?
“Abbiamo appena iniziato a presentare il disco in Italia e siamo molto concentrate su questa prima serie di date. A fine febbraio ci sarà una versione speciale del concerto, ripensato per uno spazio a doppia visione all’interno del museo Punta della Dogana a Venezia per il festival Set Up”.
di Luisa Santacesaria