di Erica Fialà e Gaia Carnesi
Firenze, luglio 2025. Il sole scivola sul pelo dell’Arno, accarezza le pietre calde del Ponte Vecchio e si rifrange sulle finestre dei palazzi come un lampo di memoria. Ma questa volta, nel consueto rituale urbano che accompagna il tramonto, qualcosa cambia: quattro canoe attraversano lentamente il fiume, trascinando con sé enormi stampe fotografiche. Sono immagini sospese tra oblio e bellezza, frammenti di vita alluvionata e redenta. È Inventario #2, il secondo appuntamento della mostra itinerante sull’Arno firmata da Marina Arienzale e Marco Lanza, prodotta dal Centro di Creazione e Cultura nell’ambito dell’Estate Fiorentina 2025.
I reperti marini spiaggiati vengono riportati “a casa” attraverso il gesto dei canottieri
Dopo la prima edizione del 2024, che aveva visto gli artisti documentare gli oggetti abbandonati e sommersi dall’acqua dell’alluvione in Toscana del novembre 2023, questa seconda “discesa” cambia scala e intensità. Il 10 luglio, dalle 17.30 alle 20.30, le fotografie – immagini di “reperti marini spiaggiati” in una città senza mare – si muoveranno lungo tutto il tratto urbano dell’Arno, dalla sede dei Canottieri sotto il Ponte da Verrazzano fino alla passerella dell’Isolotto. Ogni ponte sarà un affaccio possibile, ogni sponda un invito a guardare. La mostra si articola in tre livelli: l’azione performativa dei canottieri che trascinano le immagini, la bellezza delle fotografie e la dimensione digitale accessibile tramite QR code distribuiti con delle cartoline lungo il tragitto. Il risultato è un ibrido tra installazione ambientale, videoarte, performance e reportage: effimero ma potentissimo, visivo e sensoriale, lirico e politico mai didascalico. Ma che cosa significa portare immagini di oggetti scartati dentro un fiume? Perché affidare alle braccia dei canottieri la fatica simbolica di questa traversata? Lo abbiamo chiesto direttamente a Marina e Marco in una conversazione sincera e appassionata.
©Roberto Buzzolan
Intervista a Marina Arienzale e Marco Lanza
Quando avete capito che l’Arno poteva essere non solo sfondo, ma protagonista?
Marina: È successo dopo la prima edizione, quando ci siamo chiesti come restituire tutto quel lavoro al pubblico. Gli oggetti che avevamo fotografato avevano una storia, una dignità. L’idea di esporli sul fiume – e poi nel fiume – è nata quasi naturalmente.
Marco: Il fiume è diventato lo spazio giusto per questi oggetti infangati. Come diceva Manzoni “l’Arno è il luogo dove si vanno a sciacquare i panni. Qui c’è un senso di rito, di restituzione, di purificazione”.
Portare immagini di “reperti marini spiaggiati” in una città senza mare: gesto nostalgico, provocatorio o entrambe le cose?
Marina: C’è un valore simbolico forte. Questi oggetti viaggiano da tempo. Alcuni hanno grafiche degli anni ’80. Per me è un modo per andare contro l’appiattimento culturale e provocare domande.
Marco: È anche una riflessione sull’ambiente. Quello che “laviamo via” non scompare: ritorna. E noi cerchiamo di trasformare il caos in bellezza, come fa un inventario che mette ordine nelle cose.
“Inventario” evoca ordine, ma le vostre immagini parlano di disordine e accumulo. Qual è la vostra vera ossessione?
Marina: Per me è trovare senso nel caos. Anche negli oggetti più poveri, nei gesti più semplici.
Marco:Tirare fuori bellezza dagli scarti, mi interessa quella trasformazione. Le nostre visioni si compensano. Io sono più attratto dalla forma, Marina più dalla performance, dallo spazio pubblico. È in questa complementarietà che nasce il nostro linguaggio comune.
Che tipo di reazione cercate nel pubblico? Empatia, stupore, senso di colpa?
Marina: Se c’è un pubblico, è già tanto. Alcuni si imbatteranno per caso nelle immagini, e va benissimo così. Ci interessa la sorpresa, l’imprevisto.
Marco: Lo stupore può essere un veicolo potente. Cattura lo sguardo, genera uno stato emotivo che apre a contenuti più profondi.
Quanto è importante la fatica fisica del canottiere in questa installazione?
Marina: È fondamentale. Il corpo che trascina le immagini è parte dell’opera. C’è un’attesa, un accumulo, una lentezza che obbliga a fermarsi. E poi il gesto stesso del traino: è sostenibile, umano. Non volevamo una barca a motore.
Marco: Il traino diventa metafora. È la nostra fatica a liberarci di ciò che abbiamo abbandonato.
Come si evita che un’opera ambientale diventi subito moralista?
Marina: L’opera deve funzionare in sé, non imporre letture.
Marco: Noi non volevamo fare un’opera ambientalista. Ma poi i significati emergono, inevitabilmente.
In che modo la fotografia trasforma uno scarto in qualcosa di sacro?
Marina: Non parlerei di reliquie. Ma sì, il gesto di fotografare, di estrarre un oggetto dal fango, di metterlo in scena, gli restituisce una dignità.
Marco: E poi c’è l’astrazione. Le immagini sono pulite, quasi ieratiche. Ma accanto ci sono i video sporchi, girati col telefono, che raccontano il “dietro le quinte”. C’è una doppia verità.
Avete detto che sperate, un giorno, di avere 50 stampe enormi. Cosa ne farete?
Marco (ridendo): Le butteremo tutte nell’Arno, come un gesto finale. Oppure le conserveremo. Ma certo, l’idea dell’accumulo è lì, sempre.
Inventario #2 è molto più di una mostra: è un’esplorazione fisica e poetica, una performance collettiva che unisce le rive della città, un atto d’amore verso ciò che abbiamo dimenticato. L’Arno – più che un fondale – diventa protagonista, palcoscenico e specchio e chi guarda, dal ponte o dalla riva, è chiamato non solo a vedere, ma a sentire.
Per info e aggiornamenti:
📍 www.marinaarienzale.net/inventario
📸 Guido Cozzi