di Leonardo Cianfanelli
Prima Kelevra, ora Cassandra, i ragazzacci fiorentini si preparano a conquistare l’Italia con il loro debutto su Mescal: “Campo di Marte”. Una summa di pop genuino e tanto mestiere maturato in ore di sala prove e sui palchi di mezza Italia, che sarà presentato live al Combo il 30 aprile. Ne parliamo con Matteo Ravazzi, frontman della band e instancabile agitatore culturale con il collettivo Fiore Sul Vulcano, che dal 2015 si occupa di produzioni musicali e di organizzazione eventi.
Perché il nome Cassandra?
“Sarebbe bello dare una spiegazione legata al mondo mitologico, con un senso profondo connesso al nostro stile, ma in realtà è una cosa molto più banale: un giorno è apparsa una scritta fuori dalla nostra sala prove che diceva “Cassandra mi manchi” e ci è piaciuta, bona”.
Rock, Pop, Indie, parole che negli ultimi anni si sono mescolate creando molta confusione. Che musica fanno i Cassandra?
“Ci siamo posti questa domanda molte volte, fino a che ci siamo stufati di trovare una definizione. Crediamo in due cose: nella musica pop intesa come popolare, masticabile da tutti e nell’approccio di pancia, istintivo, che trasforma una sbavatura in un colore unico”.
Qualcosa che non hai mai detto a nessuno sull’esperienza di X-Factor?
“Nessuno di noi aveva mai guardato X-Factor e una volta lì è stato imbarazzante perché non avevamo la minima idea di come funzionasse e di cosa dovevamo fare. Ci chiesero se fossimo degli artisti o stessimo accompagnando qualcuno”.
Afterhours, Bluvertigo, Carmen Consoli, Cristina Donà e molti altri, in quasi trent’anni di attività la Mescal ha lanciato progetti ormai più che affermati. Com’è nata questa collaborazione?
“È nata come le belle storie di una volta: di pancia, ascoltando le canzoni, annusandosi e piacendosi. E chissenefrega dei social, dei follower o dell’immagine. I musicisti devono fare musica, quello è il loro biglietto da visita”.
Una scena, la vostra, che guarda spesso a Roma e Milano. Considerato il vostro attaccamento alla nostra città, evidenziato anche dal titolo dell’album, com’è per voi crescere artisticamente a Firenze?
“Sicuramente stimolante da un punto di vista artistico, gli input che ti arrivano sono molteplici ed è per questo che Firenze è sempre stata un terreno fertile per nuove proposte. Mancano però quelle dinamiche di gestione che valorizzano e definiscono una scena, ci sono pochi addetti ai lavori e quei pochi che ci sono collaborano poco tra di loro (cosa fondamentale in una realtà piccola come quella fiorentina). Manca una progettualità sulla cultura dal basso, che fa sì che il valore artistico si disperda e perda di incisività”.
Cosa succederà al Combo?
“Sarà una festa, di quelle vere, perché finalmente si torna a casa: sul palco e tra la nostra gente”.