di Lorenzo Hofstetter
Domenica 30 novembre si è conclusa la XII edizione delle Conversazioni in San Francesco (Lucca). Titolo della rassegna di quest’anno è stato “Frontiere”, un tema che apre a una miriade di riflessioni sul concetto di confine. Gli interventi dell’evento finale si sono incentrati sul progetto “Borderlands – Un viaggio americano”, opera del fotografo Francesco Anselmi. Le sue considerazioni su spazi liminali e di confine, fra Stati Uniti e Messico, hanno dialogato con quelle di Renata Ferri. Già caporedattore e photoeditor di iO Donna e Amica, nonché per un decennio direttrice di Contrasto, Ferri è una delle figure più autorevoli nel panorama della fotografia italiana. Abbiamo rivolto un paio di domande a entrambi.

foto: David Rouge
Comincerei rivolgendomi a Francesco Anselmi: lei ha attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico con lo sguardo del fotografo. Quali sono stati gli elementi che più l’hanno colpita e che l’hanno spinta a raccontare questo genere di territorio non come linea di separazione, ma come realtà autonoma e viva?
La cosa che mi ha colpito di più e che continua a colpirmi (anche ora che lavoro sui confini europei) è la distanza tra la realtà che si incontra e le narrazioni che ne vengono fatte da noi. Questi luoghi vengono raccontati come delle zone di non continuità, dove appunto si può mettere un muro, dove bisogna arginare qualche pericolo. Poi, più esploro i confini, più in realtà mi rendo conto che si tratta di altro: che queste sono delle zone grigie, che sono delle zone di grande incontro e che quindi permane sempre la capacità degli esseri umani di incontrarsi al di là di un fiume, al di là di una foresta, o al di là di qualsivoglia altro confine. Volendo fare un esempio concreto, quest’anno ho lavorato in Polonia, dove, al confine con la Bielorussia, si è innescata una crisi migratoria. Il presidente bielorusso Lukashenko, a un certo punto, ha cominciato a far volare migranti in Bielorussia per poi spingerli contro il confine polacco. In tale contesto di grande tensione, è stato quindi costruito un muro (che è ben più alto di quello che c’è in Messico, nonché tecnologicamente molto più avanzato). Quando sono arrivato in Polonia dormivo a pochi chilometri dal confine, dove sono stato accolto da una ragazza che conosceva il mio lavoro: “Tu lavori sui confini, ed è importante che tu sappia che qua, dove si parla costantemente della guerra, un tempo andavamo avanti e indietro tranquillamente.” Vedi, dunque: le persone, prima ancora che io cominci a portare una mia narrazione su questo luogo, prima che possa iniziare tutto questo, ci tengono prima di tutto a fare uno statement: che questa è una situazione innaturale, calata dall’alto, totalmente funzionale alla propaganda. Questo vento che la politica fa soffiare su luoghi più pericolosi, più critici, non è realistico. Ed è questo, in particolare, a colpirmi.

foto: David Rouge
Vorrei ora chiedere a Renata Ferri di offrirci la sua lettura critica del progetto: nel suo ruolo di editor e curatrice, come legge “Borderlands”? Quali sono le scelte narrative e visive che le sembrano decisive per superare la retorica emergenziale, restituendo un ritratto autentico di questa terra di confine?
L’autenticità (nel senso di verità: l’autenticità è nelle intenzioni, mentre la verità, l’oggettività è sempre ambigua, poiché siamo interpreti anche quando assolviamo il compito di testimoniare: scegliamo punti di vista, porzioni di mondo da includere e altre da escludere) … è sempre un miraggio per qualsiasi giornalista (ride). Beh, parliamo di interpretazione. Credo che “Borderlands” sia un lavoro di grande interpretazione narrativa, che rifugge lo stereotipo, il bianco-e-nero drammatico, evita di riprendere i protagonisti in modo pietistico. L’autore mantiene una giusta distanza con i soggetti che fotografa sviluppando una narrativa molto dialettica, in cui immagini di grande pietas (come, ad esempio, i migranti nel deserto affaticati, feriti o in fuga) si alternano a immagini di vita apparentemente normale.

foto: David Rouge
Le foto di Anselmi evocano un’area che, nella sua crudezza, echeggia di immaginari letterari e cinematografici. In particolare, ho pensato a Cormac McCarthy, che in “Meridiano di sangue” scrive: Dio ha creato il mondo, ma non lo ha creato su misura per tutti… Dato che il festival Frontiere si chiude proprio con il vostro dialogo, vorrei chiedere a entrambi: che cosa significa oggi, raccontare le frontiere?
Ferri: Innanzitutto cosa significa, oggi, parlare di frontiere, in un “mondo futuro” come quello in cui noi stessi viviamo? In cui sono assolutamente ridicole queste frontiere, queste barriere? Pensiamo ai muri: il muro di Berlino è stato costruito nel 1961 e oggi, ancora, le amministrazioni pensano di costruire altri pezzi di muro tra Stati Uniti e Messico. C’è qualcosa di arcaico in questo mondo, che invece va inevitabilmente verso il futuro. E questo già mi sembra più che stravagante. Mi sembra assurdo. Parliamo di realtà dove si fanno guerre servendosi di droni, si erigono muri non più di mattoni, ma di acciaio, di ferro… E raccontare è un dovere: un dovere del giornalismo, un dovere dell’arte, un dovere degli autori (che siano di parola o di immagine, immagine statica o immagine in movimento). È un dovere di tutti noi, che siamo operatori culturali, raccontare la costruzione e l’abbattimento delle frontiere, affinché il mondo vada avanti e ne crei uno più giusto. La frontiera USA-Messico è un patto spezzato fra gli uomini e la terra – perché sostanzialmente innaturale – ma è anche, soprattutto, un patto spezzato tra gli uomini.
Anselmi: La risposta a questa domanda tornerebbe inevitabilmente sull’argomento di prima, cioè sulla capacità di prendere le distanze da certe narrazioni e su quella di stare nei luoghi. Di osservarli, di viverli: pratica dalla quale il giornalismo contemporaneo sempre più si sta distaccando; e pratica che è estremamente complessa, certo, ma che resta l’unico modo per raccontare veramente dei luoghi. Quando si arriva dall’esterno, da persona che in quei luoghi non è nata e che in quei luoghi non vive permanentemente, diventa fondamentale portare avanti narrazioni che non siano funzionali a una parte o all’altra, ma che siano in grado di ristabilire un dialogo umano. Quelle che osserviamo sono tutte persone, anche quelle che noi tenderemmo a giudicare negativamente. Spesso, anzi, sono delle persone in difficoltà, dimenticate dalla politica. E io penso che la sinistra, in particolare, abbia delle enormi responsabilità, rispetto a queste sacche di abbandono che si sono create (in Europa come negli Stati Uniti). È da lì che nascono reazioni politiche che esprimono una volontà elettorale molto chiara, come quella che ha portato Trump al potere o che si declina nei sovranismi, nei populismi, che imperversano un po’ ovunque. Una narrazione che accolga l’aspetto umano di queste situazioni, però, non deve neanche scadere in narrazioni semplicistiche. Se i migranti vengono sempre rappresentanti come degli esseri umani in difficoltà, la loro identità si ridurrà facilmente o a quella del migrante morto o a quella del migrante-invasore. Invece è importante rispettare anche il corpo del migrante, che troppo spesso viene accettato solo se ferito, in difficoltà, morente: quando è vissuto come corpo sano, invece, il migrante diventa una minaccia. Il corpo del migrante deperisce anche per questo, perché sa di poter essere accettato solo in questo modo. Concludendo, bisogna sempre portare l’attenzione sulla dimensione umana di questo lavoro, così da evitare polarizzazioni e trovare soluzioni valide per tutti.
