Ai margini della città di Firenze, dove il cemento urbano lascia spazio al verde delle colline, fra orti sociali, convivenze intergenerazionali e battaglie per l’autorecupero, il Cecco Rivolta è diventato nel tempo un laboratorio vivente di coabitazione, mutualismo e sperimentazione sociale. A 25 anni dal primo ingresso in quella casa chiamata allora “G.S.A. – Ghetto Supergiovani Antinoia”, abbiamo incontrato Enrico, una delle voci del collettivo, per riflettere su passato, presente e futuro di questo progetto unico.
Ci racconteresti in breve quello che Cecco Rivolta ha fatto in questi venticinque anni e qual è stato il suo ruolo sul territorio fiorentino?
Sono stati anni intensi, in cui la casa ha partecipato attivamente al movimento no Global ed è stata la culla di molti progetti di comunicazione come Autistici-inventati, Indymedia eStampa clandestina. Il nostro esempio ha ispirato molti altri gruppi co-abitativi: il Pacaro, Il pettirosso, il Soqquadro, solo per citarne alcuni. Abbiamo preso parte al Network odissea per lo spazio, dall’occupazione del Bandone, passando per gli ZOT del Niccolini all’Infopoint di via Bufalini, realizzando la tre giorni alle Cascine e l’esperienza della Venere Biomeccanica. Molti di noi erano attivi anche dentro il movimento di lotta per la casa che in quegli anni, con Lorenzo Bargellini, cercava delle soluzioni radicali al problema abitativo dei migranti. Abbiamo preso parte anche alla vita del Centro Sociale Nextemerson dove abbiamo realizzato eventi, iniziative e momenti di scambio importante che ci hanno permesso di raccogliere il budget necessario per pagare i costi legali delle lotte che portavamo avanti senza mai lasciare indietro nessuno. Nel 2013 abbiamo avviato un processo che, negli anni, ha trasformato la nostra casa in una realtà legalizzata. Avevamo bisogno di una prospettiva a lungo termine che ci permettesse di investire tempo e denaro nei nostri progetti e volevamo che il Cecco Rivolta, la grande casa e i suoi spazi verdi tutto intorno, rimanessero un bene collettivo, una risorsa pubblica, uno spazio di condiviso dagli abitanti del quartiere e della città, un’oasi nel deserto di un mondo sempre più soggiogato dalla dinamica speculativa, dai capitali finanziari, dall’individualismo e dall’ignoranza dilagante.
La “tre giorni” del Cecco è ormai un rituale annuale per la comunità, ma quest’anno cade in pieno anniversario: dobbiamo aspettarci qualche colpo di scena, qualche sorpresa fuori programma per celebrare i 25 anni?
L’idea che questa esperienza sia sopravvissuta a 25 anni di vita collettiva, ci ha fatto venire voglia di celebrare in grande questo anniversario e stiamo progettando una tre giorni, dal 26 al 28 giugno, in cui aprire il Cecco Rivolta alla città: vogliamo essere uno spazio pubblico condiviso, dove far convergere idee e progetti, creare connessioni e rigenerare risorse. In programma ci saranno incontri, spettacoli, musica, workshop e dibattiti in cui parleremo di spazi pubblici, socialità non mercificata, relazioni, generi, musica, cinema e lotte. Tra gli invitati anche la Venere Biomeccanica, adesso in viaggio ma che presto prenderà possesso della sua nuova casa.
Come è cambiata la relazione tra le persone e gli spazi condivisi del Cecco nel tempo?
Il Cecco Rivolta è un allenamento quotidiano di flessibilità, ascolto e comprensione e la fatica che questo comporta è il prezzo da pagare per vivere qui ma ci rende delle persone migliori. Le relazioni dentro al Cecco sono complesse, stratificate e intrecciate come la trama di un tessuto. Modificando il punto di vista muta l’oggetto osservato e il modo di intendere il mondo. Ogni azione deve tenere conto dell’insieme, ed essere consapevole del posizionamento sulla scacchiera. Non è facile e spesso ci siamo pestati i piedi a vicenda, tuttavia siamo ancora insieme da oltre venti anni, il nostro è un rapporto di fratellanza e sorellanza e ognuno conosce i punti di forza e debolezza degli altri. Negli ultimi anni i bambini sono stati un interessante spunto di riflessione su come le loro relazioni si sviluppino nel tempo e c’è stato un aumento di consapevolezza del proprio ruolo nella collettività. Credo che finché riusciremo a rimanere aperti e capaci di mettere da parte il proprio ego il nostro esperimento sopravviverà.
Il Cecco ha spesso anticipato pratiche di mutualismo e cohousing: oggi come dialogate con le nuove generazioni e i nuovi bisogni?
Come ti accennavo prima, i nostri figli sono la propaggine più immediata al concetto di futuro e di relazione con le nuove generazioni. Il Cecco è sempre stato uno spazio di attraversamento. Negli anni sono passate per brevi o lunghi periodi una masnada di persone, diversissime fra loro che hanno lasciato qui qualcosa e si sono portati via qualcos’altro. Lo scambio quindi, il buttarsi nel mezzo, il mettersi in gioco, mettendo da parte le proprie convinzioni sul mondo sono state una ricetta efficace per riuscire a costruire un dialogo con tutti quelli che hanno attraversato la casa. Ma questo dialogo spesso da frutti incerti, magari postumi e a volte marci. Tuttavia la nostra apertura e la capacità di trasformarsi sono stati fino ad adesso la chiave di questo dialogo e spero che lo resteranno a lungo.
Se dovessi raccontare a un ragazzo di oggi cos’era e cos’è il Cecco Rivolta, quali parole useresti?
Qualche settimana ho raccontato a mia figlia Iris di 15 anni la storia della casa in cui abita. Non è facile descrivere l’essenza di questo spazio e della vita che si scorre dentro. Negli anni questo spazio è stato molte cose diverse, prendendo la forma dei suoi abitanti con le loro necessità e i desideri: un esperimento di condivisione nato nel duemila, eravamo tutti studenti universitari fuori sede e alcuni giovani lavoratori e l’occupazione della casa era innanzitutto una conquista di autonomia che ci consentiva di vivere con poco senza rimanere strangolati dal mercato degli affitti fiorentini. Il nostro motto “ una casa per noi, un salotto per tutti” fu quanto mai azzeccato e il Cecco Rivolta diventò un collettore di idee, proposte e progetti politico-culturali e in pochi anni divenne parte di una potente rete di soggetti e gruppi che ne hanno amplificato relazioni e possibilità.
Ci racconteresti il rapporto con il Dipartimento di Urbanistica guidato dal Professor Giancarlo Paba?
Trovammo dentro quel dipartimento un grande interesse per la nostra esperienza che ci portò a comunicarla attraverso canali più ampi finendo all’interno di pubblicazioni emerite e andando in giro per mezza Europa a raccontare il nostro progetto. Grazie a questo hype, riuscimmo a costruire un canale di comunicazione con l’Università, proprietaria dell’immobile dove vivevamo e a costruire una convenzione partecipando a un bando della regione sull’edilizia pubblica residenziale come progetto di cohousing, insieme ad altre storiche occupazioni fiorentine. Nel 2017 abbiamo cominciato i lavori di ristrutturazione della casa con l’obbiettivo di trasformala in un luogo adatto alle nostre mutate necessità e con la consapevolezza di poterne disporre per i trent’anni successivi. Abbiamo concluso i lavori nel 2021, in piena pandemia, dopo più di 8000 ore di lavoro di auto-recupero e quasi 350.000 euro di investimento complessivo. Attualmente dentro casa convivono sei famiglie e qualche single irriducibile e ognuno di noi ha un suo spazio privato e una camera dove dormire o nascondersi quando non ne può più, ma tutti gli altri spazi sono condivisi. Le spese di gestione della casa, dalle bollette della tari, sono gestite collettivamente. La sera ceniamo tutti insieme, dividendoci tra di noi lavoro, ruoli e momenti di relax. Vivere in un ecosistema simile ha molti vantaggi, il gruppo sopperisce alle mancanze del singolo, ne compensa le difficoltà, facendosi carico delle singole necessità. In tutti questi anni ognuno di noi ha portato dentro lo spazio il proprio mondo, connessioni e relazioni. Siamo stati capaci di assecondare cambiamenti, accettarci per quello che siamo e costruire relazioni forti e stabili che hanno guidato le nostre scelte e i nostri percorsi.
In questi 25 anni, qual è stato secondo te il momento più difficile e quello invece più luminoso del percorso collettivo?
Il momento più potente sono stati i primi sette anni di occupazione, un momento ricchissimo di eventi, esperienze e arricchimento collettivo. In quegli anni turbolenti abbiamo costruito la nostra identità e fondato relazioni che durano ancora. In tempi recenti ricordo con piacere il periodo del Lockdown, avevamo appena finito i lavori in casa, sopravvivendo a ogni tipo di difficoltà. Il mondo si era fermato e noi accogliemmo quella pausa dedicandoci noi, ai nostri figli e a quel presente collettivo che si stagliava forte e cristallino contro l’isolamento del resto del mondo. Il periodo più difficile lo collocherei all’arrivo dei primi figli: molti di noi non erano pronti e la casa non era ancora adatta ad accoglierli, molti in quegli anni se ne sono andati e soffro ancora per quelle perdite, tuttavia il Cecco continua ha continuato a essere per loro un punto di riferimento importante e il centro della loro vita sociale.
La dimensione politica è sempre stata centrale: cosa significa oggi, nel 2025, “fare politica dal basso”?
Fare politica dal basso significa essere consapevoli di dove ci collochiamo nel mondo: la nostra azione si sviluppa ai margini intesi come luoghi indefiniti e non ancora codificati, dove le pratiche non hanno ancora nome o rappresentazione. Ciò che accade al centro del discorso politico ci interessa come riflesso sul mondo abitato ai margini: il Cecco si trova su una collina e da qui cerchiamo di intercettare i bisogni e i desideri di tutti coloro che si muovono e vivono in questo territorio sfumato e dinamico, ricco di complessità e carico di possibilità inesplorate. Vorremmo che questo spazio rimanesse un amplificatore di istanze, un collettore di energie, un hub di relazioni che lentamente facciano emergere le proprie rivendicazioni contrapponendo la mutualità all’individualismo dilagante, le relazioni allo sfruttamento, la crescita personale e collettiva alla competizione e al valore del capitale.
Il rapporto con le istituzioni è stato complesso ma anche determinante per il riconoscimento del progetto. Come lo descriveresti oggi?
Il nostro rapporto con le istituzioni non è mai stato facile, l’Università, che abita il centro, ha sempre avuto un atteggiamento avverso nei nostri confronti e abbiamo affrontato tre gradi di giudizio penale e due cause civili, vincendo sempre. Per costruire un dialogo è stata necessaria la mediazione di terzi e oggi, dopo aver portato a termine il progetto di auto-recupero nei tempi e nelle modalità previste, non siamo ancora riusciti a stipulare il contratto di locazione che avrebbe dovuto suggellare la convenzione. Abbiamo cercato per anni di spingere l’amministrazione universitaria a chiudere il processo, ma adesso la dirigenza è cambiata ed ha innalzato un muro invalicabile, mentre ci consentirebbe di continuare a crescere e costruire spazi e progetti. Vorremmo ricostruire la relazione con gli amministratori e riattivare il dialogo perduto.
A livello personale come ti ha trasformato vivere in una comunità così densa, aperta e continuamente in evoluzione?
Da anni considero i costi della psicoterapia tra le spese legate alla casa e sono consapevole di quante energie richieda vivere nel Cecco Rivolta, anche se ormai la sua forma è la mia forma, e riesco difficilmente ad immaginarmi una vita diversa, anche se ogni tanto sogno di mangiare una zucchina lessa in una cucina candida immerso nel silenzio assoluto. Credo che gran parte di quello che sono lo devo a questa esperienza estrema e ricca. Ho imparato a vivere nella complessità e questo mi ha dato gli strumenti per destreggiarmi in qualsiasi contesto, sono sceso in profondità trasformandomi in una persona migliore per la mia compagna, i miei figli e i miei amici.
Guardando al futuro, quale sogno collettivo che non si è ancora realizzato, vorresti vedere compiersi nei prossimi anni?
Il processo di auto-recupero e il desiderio che questo progetto sopravviva ai suoi creatori, rimanendo uno spazio pubblico per le generazioni future. Il mio sogno è che quando noi saremo vecchi, i nostri figli continuino ciò che abbiamo iniziato, magari in altro modo e con strumenti diversi. L’importante è che non ci sia un punto ma tre puntini di sospensione.
La “tre giorni” del Cecco è ormai un rituale annuale per la comunità, ma quest’anno cade in pieno anniversario: dobbiamo aspettarci qualche colpo di scena, qualche sorpresa fuori programma per celebrare i 25 anni?
L’idea che questa esperienza sia sopravvissuta a 25 anni di vita collettiva, ci ha fatto venire voglia di celebrare in grande questo anniversario e stiamo progettando una tre giorni, dal 26 al 28 giugno, in cui aprire il Cecco Rivolta alla città: vogliamo essere uno spazio pubblico condiviso, dove far convergere idee e progetti, creare connessioni e rigenerare risorse. In programma ci saranno incontri, spettacoli, musica, workshop e dibattiti in cui parleremo di spazi pubblici, socialità non mercificata, relazioni, generi, musica, cinema e lotte. Tra gli invitati anche la Venere Biomeccanica, adesso in viaggio ma che presto prenderà possesso della sua nuova casa.