Intervista ad Alberto Breschi
Zziggurat è l’ultimo gruppo dei movimenti radicali. Fondato nel 1969 da Alberto Breschi, Roberto Pecchioli e Giuliano Fiorenzoli, progettavano visioni nuove per un paesaggio frammentato ed una fruizione libera per le nuove generazioni, in stretta relazione con la natura.
Zziggurat è l’ultimo gruppo del movimento radicale a costruire nuovi scenari immaginifici. Era il 1969 quando Alberto Breschi, Giuliano Fiorenzoli e Roberto Pecchioli non si lasciavano distrarre da altri elementi se non da una nuova architettura. Il loro oggetto d’identificazione era il fuori scala assoluto, la loro provocazione progettare una Firenze decontestualizzata in un paesaggio altro, avanguardista. Oggi l’architetto Breschi ci racconta le impetuose idee di quegli anni.
Sull’Arno
Architetto, cosa ha rappresentato Zziggurat nella sua carriera?
«Ha rappresentato moltissimo, il gruppo si è costituito quando eravamo ancora studenti, in pieno ’68. I nostri interessi si contaminavano con la scoperta della politica. La contestazione al sistema coinvolgeva anche la cultura, la didattica e il suo esito, cioè la professione. Nacque così la nostra formazione radicale. Il mondo stava per esplodere e i giovani erano dirompenti».
Perché Zziggurat come simbolo di identificazione?
«È un riferimento mitico, tratto da un quadro Pop art di John McCracken in cui è rappresentata una grande piramide gialla. Pensavamo di fare architettura scegliendo delle forme la cui funzione era indifferente e isolarle dal significato arcaico. Attraverso il richiamo ad un archetipo potente, potevano assolvere ogni funzione. Il nostro riferimento era l’arte primaria e le sculture minimaliste, come il cubo nero in Odissea nello spazio di S. Kubrick, la tomba di Maometto o il grande parallelepipedo che conteneva il razzo diretto sulla Luna. Oggetti assoluti che si evolvevano nell’architettura».
Città lineare
Ci racconti La città lineare per Santa Croce, il progetto nato dalla sua tesi di laurea.
«Era una risposta molto politica e polemica, rischiammo di non laurearci perché i commissari si scandalizzarono. Una gradinata in elevazione che attraversava la città indifferente, un altro modo di vivere e relazionarsi. Il progetto si fondava sul tentativo di dimostrare come la residenza si possa vivere in maniera diversa, creando ambienti in cui le funzioni si possono ribaltare e costituendo delle comunità».
La città di foglie rappresenta invece lo spazio urbano fiorentino contaminato dai boschi. Cosa volevate comunicare?
«Un’evoluzione della lineare, un luogo libero e disponibile per le nuove generazioni. L’idea era quella di ricostruire mura che arrivate sull’Arno creassero un ponte vivibile, in un recupero ludico. L’albero della Libertà, simbolo della rivoluzione francese, era la nostra ispirazione. Se mangiavi i suoi frutti ribaltavi i rapporti sociali. Pensavamo che con l’espansione densa e incoerente di Firenze nelle periferie, i piccoli centri storici sarebbero diventati delle oasi. Così abbiamo rovesciato i termini. “Se la giungla è d’asfalto la città è di foglie”, ovvero se fuori le mura non c’è più natura, quel che resta deve diventare il nuovo parco urbano. Era la nostra utopia».
Qual è stato il progetto Zziggurat più monumentale?
«Il concorso internazionale per la nuova biblioteca di Teheran, la Pahalavi National Library, durante l’impero dell’ultimo Scià di Persia. Si trattava di una sorta di collina artificiale con ampi gradoni. Ha segnato il nostro punto più alto e anche il più basso, perché in seguito il gruppo si è sciolto».
Città lineare
L’architettura immaginata e progettata dai radicali era abitabile o pura utopia?
«La nostra era abitabilissima, pensavamo davvero fosse possibile. Abbiamo portato avanti questa idea anche all’università con gli studenti, mantenendo vivo quello spirito. Eravamo ottimisti».
Oggi è stato raccolto il testimone del genio radicale?
«Vedo dei ragazzi molto preparati che si laureano e vanno via, all’estero. Portano altrove le loro capacità perché qui non hanno trovato il modo di esprimersi. È tutto molto condizionato dalla politica e l’evoluzione della professione ha reso il profilo dell’architetto una figura superata, non è più l’elemento centrale del progetto. L’arte deve rappresentare il mondo attuale e quello che verrà, se l’atteggiamento verso il futuro è timoroso non nascerà nulla. Per vedere sorgere una figura nuova e diversa serve rinnovare una visione non dispotica, ma utopica».
Crediti fotografici Archivio Zziggurat