Intervista alla Presidente Rosa Maria Di Giorgi

Presieduto da Rosa Maria Di Giorgi e diretto da Francesco Fumelli, ISIA di Firenze quest’anno festeggia 50 anni di attività nel settore pubblico dell’Alta Formazione del Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e, come tutti e gli Istituti Superiori per le Industrie Artistiche d’Italia (a Roma, Urbino, Faenza, e Pescara), mira a formare professionisti nel campo del design e dell’Arte applicata all’industria, inserendosi nel sistema AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale). A differenza di altre realtà accademiche, ISIA è pubblica e possiede una forte connessione con il mondo produttivo, il design e la comunicazione, preparando i suoi studenti con una formazione pratica e innovativa che garantisce alti tassi di occupazione post-diploma.

Cinquant’anni dedicati alla ricerca applicata, caratterizzati da collaborazioni nazionali e internazionali, con docenti-professionisti di grande esperienza e un’annosa battaglia per il riconoscimento del diploma AFAM come vera e propria laurea, data l’equivalenza in termini di contenuti e durata del percorso. In questo percorso grande spazio è stato dedicato alla sostenibilità ambientale e sociale e alla partecipazione ad eventi di importanza centrale nel mondo del design come il Salone del Mobile di Milano. Sono stati realizzati progetti che affrontano il tema del cambiamento climatico poiché la sostenibilità non è solo un tema di studio, ma un valore trasversale che permea ogni disciplina e ogni progetto didattico di ISIA. In occasione di questo anniversario e della partecipazione all’Expo Internazionale di Osaka 2025, abbiamo avuto il piacere di poter rivolgere alcune domande alla Presidente Rosa Maria Di Giorgi, la cui esperienza unisce visione politica e profonda conoscenza del tessuto educativo italiano, chiedendole di illustrare ai lettori di Lungarno il ruolo che il design può incarnare nella formazione delle nuove generazioni e la possibilità, concreta e urgente, di costruire ponti tra linguaggi creativi.

Presidente Di Giorgi, ISIA Firenze celebra cinquant’anni di attività. Che cosa rappresenta oggi questo traguardo per un’istituzione formativa pubblica nel campo del design?

Questo cinquantenario rappresenta un momento di straordinaria importanza, non solo per ISIA Firenze, ma per tutto il sistema formativo italiano nel campo del design. Cinquant’anni significano mezzo secolo di innovazione, ricerca e formazione d’eccellenza. In un mondo dove molte realtà nascono e scompaiono rapidamente, la nostra longevità testimonia la solidità di un progetto educativo che ha saputo rinnovarsi continuamente, mantenendo sempre al centro la qualità della formazione.

ISIA è stato il primo istituto pubblico di formazione nel campo del design, nato in un periodo storico molto diverso, quando il design italiano stava affermandosi a livello internazionale, e ha accompagnato tutte le trasformazioni di questo settore fino all’era digitale. Oggi questo traguardo ci offre l’opportunità di guardare al percorso fatto con orgoglio, ma soprattutto di progettare il futuro con la consapevolezza della nostra identità e dei nostri valori fondanti.

L’ISIA ha saputo costruire negli anni un rapporto profondo con il mondo dell’industria, collaborando con realtà come Toyota, Ariete, Martinelli Luce. In che modo questa sinergia arricchisce la formazione degli studenti?

La connessione con il mondo dell’industria è nel DNA dell’ISIA. Non concepiamo la formazione come un processo astratto, ma come un dialogo costante con le realtà produttive. Quando i nostri studenti collaborano con aziende come Toyota, Ariete o Martinelli Luce, non stanno semplicemente facendo esperienza: stanno imparando a tradurre il pensiero creativo in prodotti reali, con vincoli concreti di mercato, sostenibilità e produzione.

Questa sinergia porta un arricchimento straordinario: da un lato le aziende entrano in contatto con menti fresche e innovative, dall’altro i nostri studenti comprendono cosa significa progettare nel mondo reale. Non è un caso che molte di queste collaborazioni si trasformino poi in opportunità lavorative. Il design non può esistere in una torre d’avorio accademica, deve nutrirsi del confronto con l’industria, e questo è ciò che ISIA ha sempre fatto e continuerà a fare.

Il placement superiore all’80% è un dato impressionante. Quali sono, secondo lei, gli elementi chiave di questo successo?

Questo dato non è casuale, ma frutto di scelte precise nella nostra impostazione didattica. Innanzitutto, la nostra selezione all’ingresso è rigorosa: vogliamo studenti motivati e di talento. Poi, i numeri contenuti ci permettono un rapporto quasi personale tra docenti e studenti, con un’attenzione alla crescita individuale che raramente si trova in altre istituzioni.

Ma ciò che davvero fa la differenza è il nostro approccio: non insegnamo solo tecniche o stili, ma un metodo progettuale. I nostri studenti imparano a pensare come designer, ad affrontare problemi complessi, a lavorare in team multidisciplinari. Le collaborazioni con le aziende, i workshop intensivi, i progetti reali: tutto questo crea professionisti già pronti per il mercato.

Infine, la rete di ex-allievi che abbiamo costruito negli anni rappresenta un patrimonio inestimabile. Molti nostri diplomati occupano oggi posizioni di rilievo e questo crea un circolo virtuoso che facilita l’inserimento dei nuovi talenti. Non formiamo solo designer, ma persone capaci di adattarsi e reinventarsi in un mondo del lavoro in continua evoluzione.

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L’Expo Internazionale di Osaka 2025 sarà una vetrina globale per ISIA Firenze. Ci racconta cosa porterete in Giappone e cosa significa per un’istituzione come la vostra confrontarsi su quel palcoscenico?

La nostra partecipazione all’Expo di Osaka rappresenta un momento di grande orgoglio. Essere presenti in una vetrina mondiale di tale prestigio conferma la dimensione internazionale che ISIA ha saputo costruire negli anni.Porteremo progetti che incarnano la nostra filosofia: il design come strumento di riflessione sociale e di innovazione sostenibile, con particolare attenzione alle sfide contemporanee globali.

Un esempio significativo del nostro approccio è il progetto sui migranti climatici che abbiamo sviluppato per il Salone del Mobile 2024, una ricerca che attraverso il design visivo e la comunicazione affronta una delle questioni più urgenti del nostro tempo. Questo lavoro dimostra come ISIA Firenze interpreti il design non solo come disciplina estetica, ma come mezzo per dare voce a tematiche complesse e stimolare il dibattito pubblico su fenomeni che richiedono una nuova sensibilità progettuale.

Questo dialogo interculturale arricchisce enormemente la nostra visione e offre agli studenti la possibilità di comprendere come il design possa essere interpretato in modi diversi in varie parti del mondo. L’Expo non è solo una vetrina, ma un laboratorio di idee che ci permette di portare il “made in Italy” nel futuro, mantenendo la nostra identità ma aprendoci alle contaminazioni globali.

Tra i progetti presentati all’Expo, emerge “MAM – Musica, Arte e Memoria”, che coinvolge anche un’orchestra internazionale. Che ruolo può giocare la musica nel dialogo con il design e con la memoria storica?

“MAM” è un progetto che mi sta particolarmente a cuore perché rappresenta perfettamente la visione interdisciplinare che promuoviamo. La musica e il design parlano linguaggi apparentemente diversi, ma condividono elementi fondamentali: ritmo, armonia, composizione. Quando questi mondi dialogano, nascono connessioni sorprendenti.

Nel caso specifico di “MAM”, abbiamo esplorato come la memoria storica possa essere preservata e rivitalizzata attraverso un’interazione tra suono e forma. La musica ha una capacità unica di evocare emozioni e ricordi, e quando si unisce al design, che dà forma tangibile a concetti astratti, si crea un’esperienza multisensoriale potentissima.

L’orchestra internazionale coinvolta ha portato una dimensione ulteriore di scambio culturale, dimostrando come la memoria non sia mai un concetto statico, ma un processo vivo e dinamico. Questo progetto dimostra che la conservazione del patrimonio culturale non può avvenire solo “mettendo sotto vetro” il passato, ma attraverso reinterpretazioni creative che lo rendano rilevante per il presente e il futuro.

Lei è anche Presidente del Conservatorio Cherubini di Firenze: quanto è importante, oggi, ragionare in chiave interdisciplinare tra arti visive, design e musica?

L’interdisciplinarità non è più un’opzione, ma una necessità. Il mio doppio ruolo mi permette di osservare quanto le barriere tra discipline siano in realtà costruzioni artificiali che limitano il potenziale creativo. La grande tradizione rinascimentale fiorentina, del resto, non conosceva queste divisioni: l’artista era anche scienziato, architetto, musicista.

Oggi, in un mondo dominato dalla complessità, dobbiamo recuperare questa visione integrata. Un designer che comprende i principi musicali può creare oggetti con un ritmo visivo più armonioso; un musicista che apprezza il design pensa alla composizione in termini di struttura e spazio. Questa contaminazione genera innovazione.

Nei nostri istituti stiamo promuovendo progetti congiunti tra studenti di design e di musica, creando occasioni di scambio che arricchiscono entrambe le comunità. Non si tratta solo di creare professionisti più completi, ma di educare persone capaci di pensare in modo olistico, di vedere connessioni dove altri vedono separazioni. Questa, credo, sia la vera essenza dell’approccio fiorentino all’educazione artistica.

Negli ultimi anni ISIA ha investito su percorsi legati a robotica, automazione, digitalizzazione. Come si concilia l’attenzione per la tecnologia con la dimensione etica e sociale che da sempre caratterizza il design “alla fiorentina”?

La conciliazione tra tecnologia e dimensione etica non è solo possibile, ma necessaria. Il design “alla fiorentina” ha sempre posto al centro l’umano, e questo principio rimane invariato anche nell’era digitale. La tecnologia, per noi, non è mai un fine, ma un mezzo per migliorare la qualità della vita delle persone.

Quando insegniamo robotica o digitalizzazione, lo facciamo sempre con un approccio critico e riflessivo. I nostri studenti imparano a chiedersi non solo “come” implementare una tecnologia, ma “perché” e “per chi”. Questo approccio umanistico alla tecnologia è ciò che distingue il nostro metodo.

Prendiamo ad esempio i nostri progetti di domotica assistiva: utilizziamo l’automazione non per creare gadget superflui, ma per rispondere a bisogni reali di persone con disabilità o anziani. La tradizione artigianale fiorentina si evolve così in una nuova forma di “artigianato digitale”, dove la maestria tecnica rimane al servizio della società. La vera innovazione, per noi, non sta nella tecnologia in sé, ma nella capacità di usarla per generare impatto sociale positivo.

La progettazione diventa, sempre più, uno strumento per leggere e trasformare la realtà: migrazioni, diseguaglianze, crisi climatica. Qual è secondo lei il compito “civile” del design oggi?

Il design ha sempre avuto una dimensione politica, nel senso più nobile del termine: la capacità di immaginare e plasmare il mondo in cui viviamo. Oggi questa responsabilità è ancora più evidente. Di fronte alle grandi sfide globali, il designer non può limitarsi a creare oggetti esteticamente piacevoli, ma deve assumere un ruolo attivo nella ricerca di soluzioni.

Il compito “civile” del design contemporaneo è duplice: da un lato deve rendere visibili e comprensibili problemi complessi, dall’altro deve proporre alternative concrete. Penso ad esempio ai progetti dei nostri studenti sul tema delle migrazioni: non si limitano a documentare il fenomeno, ma creano strumenti che facilitano l’integrazione e il dialogo interculturale.

Sulla crisi climatica, stiamo lavorando non solo sulla progettazione di prodotti sostenibili, ma sulla ridefinizione dei modelli di consumo. Il design può e deve aiutarci a immaginare modi di vivere diversi, più equi e meno impattanti. Questo significa anche educare designer consapevoli delle implicazioni etiche delle loro scelte, capaci di dire “no” quando necessario. Il buon design non è solo problem-solving, ma anche problem-finding: identificare le domande giuste prima ancora di cercare risposte.

L’ISIA è anche un luogo di sperimentazione culturale, con workshop sul teatro, la tipografia, il video-making. Che tipo di comunità educativa si crea in questo laboratorio permanente?

Ciò che rende ISIA unica è proprio questa dimensione di “laboratorio permanente”, dove la distinzione tra momento formativo e momento creativo sfuma. I workshop intensivi, che coinvolgono spesso professionisti esterni e studenti di anni diversi, creano una comunità di apprendimento orizzontale, dove tutti sono al contempo insegnanti e allievi.

Quando organizziamo un workshop di teatro, non stiamo formando attori, ma designer che comprendono il valore del corpo, dello spazio, della narrazione. Quando esploriamo la tipografia tradizionale, non è per nostalgia, ma per incorporare quella sensibilità materica nel design digitale contemporaneo.

Questa contaminazione continua genera una comunità educativa curiosa, aperta al rischio e all’errore come parte del processo creativo. Non a caso, molti ex studenti mantengono un legame forte con l’istituzione anche dopo il diploma, tornando come docenti o partner in progetti. ISIA non è solo un luogo dove si impara una professione, ma uno spazio dove si forma una mentalità, un approccio alla vita basato sulla creatività e sulla responsabilità. Una vera e propria “famiglia allargata” del design.

Guardando al futuro, quali sono le sfide che ISIA dovrà affrontare nei prossimi 10 anni? E come immagina il ruolo del design italiano, nel mondo del lavoro e nella società?

Nei prossimi dieci anni, ISIA dovrà navigare in un contesto caratterizzato da rapidi cambiamenti tecnologici e sociali. La prima sfida sarà mantenere un equilibrio tra la tradizione che ci ha portato fin qui e l’innovazione necessaria per rimanere rilevanti. Dovremo rafforzare l’internazionalizzazione, creando reti sempre più ampie con istituzioni e aziende globali, senza perdere il radicamento nel territorio fiorentino.

Una sfida cruciale sarà l’integrazione consapevole dell’intelligenza artificiale nel processo progettuale. Non si tratta di subirla come una minaccia, ma di appropriarsene come strumento, mantenendo al centro la visione umana e critica che caratterizza il nostro approccio.

Quanto al design italiano, credo che il suo futuro risieda nella capacità di rimanere fedele alla propria identità – qualità, cura del dettaglio, bellezza funzionale – adattandola alle nuove esigenze globali. Il design italiano può e deve diventare un laboratorio di sostenibilità reale, non solo dichiarata, proponendo modelli alternativi di produzione e consumo.

Nel mondo del lavoro, vedo i designer italiani sempre più come mediatori culturali, figure capaci di connettere discipline diverse, tradizione e innovazione, locale e globale. Nella società, il design italiano ha la responsabilità di dimostrare che un’economia basata sulla bellezza e sulla qualità è possibile e desiderabile. Non si tratta solo di creare oggetti, ma di immaginare e costruire un futuro migliore, più equo e sostenibile. Questa è la missione che ISIA continuerà a perseguire nei prossimi cinquant’anni.

 

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