Dialogo con Gianni Pettena sulla sua attività architetto, artista radicale e ricercatore.
I radicali si ribellavano ad una eredità razionalista ingombrante, ognuno con il proprio linguaggio. Gianni Pettena, architetto, artista, docente, critico e storico dell’architettura, ha scelto di seguire un sentiero solitari e personalissimo, contribuendo al movimento dell’avanguardia culturale da un’altra postazione. Una regia sottile e tagliente che portava lo spettatore ad emanciparsi osservando i suoi progetti. La sua è stata una pratica artistica che oscillava tra architettura concettuale, arte e design sperimentale. Una sorta di riforma dell’architettura che lo vede prendere parte al gruppo Global Tools, la contro-scuola di design nata nei primi anni Settanta, di cui si considerava “la spia” per il suo carattere indipendente. Nei suoi progetti natura e architettura si contaminano in una metamorfosi dei volumi, intervenendo solo su qualcosa già esistente, come in Ice House, realizzata a Minneapolis nel 1971, o in About Non Conscious Architecture nella Monument Valley. Ha trascorso alcuni anni negli Stati Uniti in qualità sia di artista che di insegnante, dove ha potuto diffondere la sua visione radicale dell’architettura: non solo costruzione, ma racconto.
Architetto Pettena, in che modo l’esperienza americana ha influito nella sua arte?
«Il mio rapporto con il contesto americano era consapevole, quindi critico e curioso nel dare una direzione radicale dell’ambiente urbano. Erano attenzioni confluite specialmente nelle mie opere più importanti, ma anche una conseguenza di qualcosa partita in Italia come osservazione. La land art, per esempio, nasce in Inghilterra ma poi si è sviluppata anche altrove».
Nel libro L’Anarchitetto scriveva: «L’architettura non la fanno più gli artisti ma la fa il buon borghese». Pensa sia ancora così?
«Certamente, c’è chi realizza cose molto più interessanti ma nel fare architettura ci si rivolge oggi
ad una continuità storica con un’amplificazione culturale».
Perché si definiva “la spia”? Cosa voleva testimoniare rispetto agli altri radicali?
«Ero parte della cosa, ero autonomo e critico, pensavo che il radicale si espandesse. Ho sempre agito come storico del movimento. Si fa arte senza rimpianti».
Attraverso l’impronta di Ettore Sottsass ha abbracciato l’ideale di un approccio all’architettura ludico e anti-funzionale. Trova che troppa razionalità limiti bisogni e desideri umani?
«Corretta descrizione. L’architettura non è una macchina che trascrive funzioni, ma un linguaggio che interpreta la propria epoca…era troppo confinata ai limiti imposti dal tempo. Una caratteristica del mio lavoro è anche di non dimenticare che fare architettura è un peccato mortale, poiché è una presenza davvero importante nel contesto da abitare».
In molti suoi progetti troviamo una connotazione politica come gesto di denuncia.
«Assolutamente, per esempio con la serie di tre installazioni a grandi lettere tridimensionali: Carabinieri, Milite ignoto, Grazia & Giustizia realizzati nel 1968. In questo caso quella & è espressamente commerciale, perché spiega che questi simboli sono stereotipi di un passato e delle funzioni interpretate dal contesto politico».
Che reazione suscitavano nel pubblico?
«Non suscitavano quasi nessuna reazione, perché la politica era ancora ai margini, non era dentro i dialoghi. Questi progetti raccontavano lo stereotipo consegnato come il destino dell’architettura stessa».
I suoi progetti erano soprattutto installazioni, performance scavalcando la classica e razionale visione dell’architettura. Qual è stato il progetto più significativo per la sua carriera?
«Il primo, la trasformazione del palazzo d’Arnolfo a San Giovanni Valdarno, attraverso una retinatura astratta nei volumi aperti della facciata. Per quattro mesi ha raccontato la metamorfosi in scala reale di un edificio sul piano funzionale, come luogo che ospita una mostra. Era il ’68, la prima volta che si faceva una installazione di uno spazio già esistente veicolando un concetto attraverso altre forme con un’opera in situ».
Si considera più artista o architetto?
«C’è una contaminazione tra arte e architettura ed essa diventa un linguaggio più ampio. Quasi trascura la corretta interpretazione di funzioni pratiche ma si concentra sull’ampiezza delle conseguenze in termini culturali. Siamo le voci da ascoltare sulle origini e assenza di continuità. L’architettura è un linguaggio che racconta il divenire della cultura con la sua forma, essa è molto presuntuosa, specie quella radicale perché doveva comunicare qualcosa di forte, diverso, libero dagli stereotipi».
Crediti fotografici: Gianni Pettena