Se vi chiedessi qual è la prima cosa che guardate la mattina e l’ultima che vedete la sera, mi direste lo smartphone. Non è un giudizio, lo faccio anche io. Lo smartphone è una protesi digitale, uno strumento così integrato nelle nostre vite da sembrare indispensabile. Uscite di casa senza e ditemi come vi sentite: smarriti, nudi, addirittura incompleti. Come possiamo allora evitare che la tecnologia prenda un controllo così pervasivo sulla nostra vita? A questa domanda cercano di rispondere il ricercatore Carlo Milani e il formatore Davide Fant con il saggio Pedagogia Hacker (Elèuthera, 2024). I due, attraverso attività pedagogiche che fanno propria l’attitudine hacker, aiutano giovani e adulti a sviluppare un rapporto più critico e meno alienante con il digitale. Ne abbiamo parlato con Milani.
Dove nasce l’idea del libro?
«Da oltre venticinque anni frequentiamo le comunità legate ad Hackmeeting, l’incontro annuale delle controculture digitali italiane. Volevamo portare questa attitudine di curiosità e autogestione delle tecnologie nelle nostre pratiche di insegnamento, dall’università alle scuole, fino alla formazione con gruppi formali e informali. La spinta finale è venuta dalle colleghe di CIRCE (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche), che ci hanno sostenuto durante la scrittura, e dall’editore, Elèuthera, che ci ha aiutato a condensare l’oggetto-libro».
In che modo il gioco ci aiuta a vivere meglio la tecnologia?
«Gioco per noi significa attività appassionata, libera dalle costrizioni economiche e salariali. Gioco è fare un passo indietro rispetto alle nostre interazioni e osservarci, prestare attenzione alle reazioni dei nostri corpi, alle emozioni che ci attraversano e spesso agiscono come reazioni automatiche. Gioco per la pedagogia hacker è esercitarsi a vedere il quadro che qualcun altro ha allestito per noi e in cui siamo immersi, da Facebook a Chat-GPT, o la prossima tecnologia che si presenta come soluzione auto-magica a bisogni indotti».
Dipende come la usi: è ciò che diciamo quando riflettiamo sull’impatto della tecnologia sulle nostre vite.
«Questa affermazione è falsa, reitera l’idea della neutralità della tecnica, ed è funzionale a chi vuole addossare al cittadino/consumatore la responsabilità per un presunto “cattivo uso” di una tecnologia di per sé “neutra”. Invece non dipende (solo) da come la usi. Buona parte delle tecnologie digitali di massa implicano lo sfruttamento di risorse naturali e umane. Sono progettate per favorire l’abuso tossico. Prevedono determinati usi e ne escludono altri. Sono proprietà di alcuni padroni, e non possono essere piegate a una convivialità condivisa: sono strutturate per il dominio, non per l’autogestione. Non sono riformabili, devono essere abbandonate il prima possibile».
Perché il tema dell’educazione digitale giovanile è spesso trascurato?
«Il digitale è una questione trasversale, riguarda anche e soprattutto gli adulti. Ci capita che insegnanti e genitori ci chiedano di insegnare a “usare bene” determinate tecnologie, come i social media. È impossibile: si possono mitigare gli effetti negativi, mettere in atto tattiche di autodifesa digitale, ma se la digitalizzazione è sinonimo di esternalizzazione presso un fornitore esterno, cioè di delega dell’organizzazione sociale, il tema è sociale e politico prima che educativo. Vietare i social ai minori e contemporaneamente costringerli a usare tutti i giorni Google Classroom (un esempio fra i tanti strumenti che non rispettano la legislazione europea sulla privacy) è un comportamento schizofrenico da parte degli adulti».
Nel libro parlate molto di social network e algoritmi, meno di intelligenza artificiale. Che sfide ci aspettano in futuro?
«Le reti sociali esistevano prima del digitale di massa. I social media sono un’involuzione di quelle reti, strutturate per favorire l’autopromozione tossica sulle piattaforme private. Quanto all’IA, non ne parliamo perché, primo, non è un attore nuovo: dagli anni Cinquanta del XX secolo si spendono favolose quantità di risorse per inseguire questa chimera. Secondo, l’IA non esiste, nel senso che, come il cavaliere inesistente di Calvino, è un involucro di grande successo ma vuoto di contenuti concreti. Quando si osserva da vicino, come esorta a fare la pedagogia hacker, si scopre che sotto l’etichetta “IA” vi sono tecnologie molto eterogenee fra loro, in grado di computare molto rapidamente, ma non esattamente “intelligenti” (la definizione di intelligenza poi non è condivisa), né del tutto “artificiali”, visto che ci sono dietro programmatori, controllori, annotatori, persone. Gli LLM della serie GPT non hanno molto a che vedere con i sistemi impiegati per risolvere problemi di protein folding e mettere a punto nuovi farmaci. Le automobili a guida autonoma fanno ricorso a tecniche molto diverse da quelle necessarie per giocare a scacchi. Eppure tutte queste cose vengono chiamate “IA”. A nostro parere, questa espressione pericolosamente antropomorfizzante confonde e non aiuta a comprendere come evolvere macchine conviviali. In ogni caso, di fronte a continue catastrofi ambientali, devastazioni, guerre, è necessario rimboccarsi le mani, perché “se non faremo l’impossibile ci troveremo di fronte l’impensabile!” (Murray Bookchin). Cominciare quindi a immaginare un presente diverso, e agire per realizzarlo, organizzandoci insieme. Le macchine amiche possono aiutarci.