di Lorenzo Fantoni

 

Pare che le prime persone a mascherarsi come personaggi di finzione per partecipare a un evento a tema furono Forrest J. Ackerman e Myrtle R. Douglas, che disegnò e creò i costumi, nel 1939. I due presenziarono alla prima World Science Fiction Convention con costumi ispirati alle illustrazioni di Frank Paul e un film chiamato La vita futura. Ovviamente il concetto di travestirsi per omaggiare figure archetipiche, eroi, maschere e personaggi è antico come l’umanità, ma cosplay è una parola che nasce nel 1984 dall’unione di costume e player grazie a una intuizione di Takahashi Nobuyuki, reporter giapponese che, molti anni dopo Ackerman e Douglas, partecipò a sua volta alla WSFC di Los Angeles e cercava la parola più adatta per descrivere ciò che aveva visto. Negli ultimi anni il cosplay è diventato un fenomeno sempre più grande, per alcuni è un vero e proprio lavoro, per altri una forma di espressione personale per fuggire dalla vita di tutti i giorni. Abbiamo parlato di questo fenomeno con Niccolò Rastrelli, fotografo documentarista fiorentino che negli ultimi anni ha portato avanti il progetto They don’t look like me, una serie di scatti che ritraggono cosplay di ogni tipo nel loro ambiente familiare e che è stata esposta non solo all’ultimo Lucca Comics & Games ma anche a Cortona e Amburgo.

Niccolò Rastrelli

Come nasce l’idea di documentare la cultura del cosplay?

«Io sono un fotografo documentarista, mi occupo di ritratti. Nel 2022 ero in un laboratorio di effetti speciali per il cinema, dove producono maschere in lattice e protesi. Mentre fotografavo, ho notato due maschere in lattice di Pino Daniele e Claudio Baglioni. Erano esposte su teste di polistirolo, perfette, anche se mancavano gli occhi. Ho chiesto al proprietario di poterle fotografare e, riguardando le foto a casa, ho avuto l’idea di lavorare con i cosplayer. Mi piace esplorare il tema dell’identità, e i cosplayer cambiano identità continuamente. Interpretano un personaggio diverso ogni volta, che sia un supereroe o altro».

Come hai iniziato la tua ricerca?

«Cercando cosplayer su Instagram e frequentando eventi come Lucca Comics, sono diventato amico di un fotografo che mi ha presentato diversi cosplayer. La selezione era piuttosto casuale, non avevo criteri rigidi. A volte era difficile ottenere il permesso non del cosplayer, ma quello dei genitori di farsi ritrarre! Ciò che amo degli scatti sono i mille dettagli sullo sfondo che raccontano vite private in contrasto con i personaggi».

Sei anche andato all’estero per questo progetto, giusto?

«Sì, il primo viaggio è stato in Senegal. Ero in vacanza a Dakar con la mia ragazza e ho deciso di cercare cosplayer locali. Ho trovato un piccolo evento e ho scattato qualche foto, anche se è stato complicato trovare soggetti. Poi ho scoperto che Kenya e Sudafrica sono paesi dove il cosplay è più diffuso; quindi, sono andato in Kenya a gennaio 2024 e ho scattato tra Nairobi e Mombasa. Poi c’è stato il capitolo giapponese, che insieme alle mostre di Cortona e Lucca è il frutto della collaborazione e il festival Cortona On The Move».

Hai notato differenze tra l’Africa e l’Italia?

«Sì, soprattutto nel convincere i genitori. In Africa i genitori sono ancora più restii rispetto a quelli italiani. Inizialmente vedono il cosplay come un hobby inutile, ma, quando notano quanto impegno ci mettono i figli, iniziano a capire che è una vera passione. E anche in Italia accade qualcosa di simile, soprattutto con i genitori più anziani».

Qual è il prossimo passo?

«Mi piacerebbe completare il progetto fotografando cosplay in America Latina, Messico, e magari in Australia, per poi realizzare un libro. Queste immagini divertenti, insieme alle loro storie, vogliono sottolineare il contrasto non solo generazionale, ma metaforico tra identità sociale, rappresentata da mamma e papà, e identità individuale, raccontata attraverso personaggi di fantasia. Inoltre, i ritratti di famiglia offrono una rappresentazione delle diversità culturali e allo stesso tempo l’immagine di un fenomeno diffuso in tutto il mondo e che accomuna le generazioni dei nativi digitali».

 

 

Crediti fotografici: Niccolò Rastelli