Una storia fiorentina che è diventata esemplare in tutta Italia per poi ispirare anche persone e realtà internazionali. La Comunità dell’Isolotto, la figura di Don Mazzi e la sua eredità sono il soggetto dell’ultimo documentario di Federico Micali (L’Universale, Firenze sotto vetro).
Un film esaustivo ed emozionante sull’esperienza di vita solidale del quartiere fiorentino, raccontata dagli albori con lunghe interviste a coloro che hanno incrociato le loro vite in quegli anni di rivoluzione sociale e religiosa.
Quale è, se c’è, il tuo rapporto personale con l’Isolotto?
“Da una decina di anni sono cittadino dell’Isolotto vecchio e ho scoperto questo quartiere favoloso che conoscevo poco e che era considerato difficile. In realtà abitare qui si è rivelato molto piacevole, soprattutto perché è un quartiere pieno di storia. Da qualche tempo cullavo l’idea di raccontarlo, ad esempio ero affascinato la storia della Montagnola come esperienza di crescita attraverso una didattica inclusiva e sperimentale. A questo proposito c’è un episodio che nel film non è stato inserito ma che è indicativo di quello che è sempre stato il carattere del quartiere. In epoca fascista si era deciso di creare un teatro per le masse con lo scopo di diffondere la propaganda. Era stato scelto l’Isolotto per questo progetto per poter utilizzare la Montagnola come palcoscenico naturale. Mi piace pensare che lo spirito antifascista dell’Isolotto si sia manifestato già allora perché l’iniziativa andò malissimo con il pubblico che espresse da subito dissenso”.
Come è venuta dunque l’idea di fare un film su questa collettività?
“Stavo ancora studiando la storia della comunità quando sono stato contattato per questo progetto relativo alla memoria. Ho accettato subito e inizialmente doveva essere un corto/mediometraggio ma mi sono fatto prendere la mano perché le persone conosciute avevano uno spessore umano inestimabile ed è una storia importantissima che non è conosciuta quanto dovrebbe. L’Isolotto nel 1969 è stato un momento cruciale per la Chiesa. Finite le interviste ho montato il film mentre lavoravo su altre cose con il prezioso aiuto di Giuseppe Catalanotto, il direttore della fotografia, che mi ha seguito fino alla post produzione finale aiutandomi anche a selezionare la musica”.
Dopo Firenze sotto vetro, attraverso cui hai raccontato il presente dell’intera città mentre si trovava in lockdown, qui hai recuperato la storia di un passato recente, partita da un solo quartiere.
“Io sono attratto inconsapevolmente verso storie di esperienze condivise (Firenze città aperta, Firenze Sottovetro, L’Universale) dalle quali si crea qualcosa. Spero sempre di scoprirne di nuove. Sia nell’Universale che ne Le chiavi di una storia non c’è una voce narrante, ma una collettività che parla come un coro, i ricordi sono condivisi e compartecipati. Ogni volta capita che qualcuno poi ci ritrovi qualcosa di personale. Succede sempre con le storie che, partendo dal racconto di un particolare, arrivano a qualcosa di più grande”.