Con cinque premi letterari vinti (Bagutta, Campiello, Fiesole, Salerno, Severino Cesari) e centinaia tra recensioni e interviste, possiamo dire che I miei stupidi intenti (Sellerio, 2021), di Bernardo Zannoni, sia uno degli esordi più discussi dell’anno. Così, in occasione della sua premiazione a Fiesole, siamo andati a scambiare due parole con l’autore. Originario di Sarzana, classe 1995, Zannoni ha un passato da cantautore e un presente da compositore di musica elettronica e DJ, oltre che di scrittore e sceneggiatore. È un autore eclettico.
“Faccio quello che mi sento” ci dice. “Ciò che porto al pubblico piace in primo luogo a me. Rimango fedele a me stesso. Rimanersi fedeli è importante”. Il suo romanzo è un’anomalia nell’attuale letteratura italiana. Non è auto-fiction e non racconta la vita di provincia o la precarietà sentimentale e lavorativa. “Da grandissimo fan di Wes Anderson”, ci racconta, “e adorando film come “Fantastic Mr Fox” o “Le avventure acquatiche di Steve Zissou”, volevo creare una storia che fosse davvero immaginifica, in cui avessi la totale libertà di inventare ciò che volevo”.
Il libro infatti mette in scena la vita di una faina in un bosco, trasformando quel microcosmo animale nella metafora della natura umana. “Ho scelto il bosco perché mi dava carta bianca per raccontare ciò che volevo. E ho scelto la faina perché è un’animale a cui non si è interessato nessuno. Non è protagonista di poemi o favole, e non ha attributi tipici, come la volpe, che appena la nomini sai subito che te la fa in barba”.
Ma leggendo il libro non ci si imbatte nel tono leggero e scanzonato di un film di Anderson. Semmai in una fiaba dai risvolti riflessivi e cupi. La natura descritta da Zannoni non è accogliente, è più che altro indifferente. “La natura segue le sue leggi, è un movimento in sincronia con l’universo. Siamo noi, coscienti, con la nostra morale, a esserci posti in contrapposizione. Uccidere per noi è sbagliato. È terribile dal nostro punto di vista, ma non da quello della natura”.
La vita di Archy infatti, la faina protagonista, è un continuo rimbalzo tra istinto e ragione, stomaco e cervello, tra la necessità di sopravvivere in un ambiente ostile e competitivo, e la presa di coscienza di sé come essere unico e destinato all’oblio. In questo senso, la storia sembra rappresentare la post adolescenza, quel periodo in cui non si è più ragazzi ma ancora non si è uomini, e si prende coscienza del mondo con uno sguardo meno istintivo e più ragionato, si colgono le contraddizioni e si affrontano difficoltà e paure, anche con la creatività.
Usando la scrittura come spazio di gioco ed evasione, Zannoni è arrivato a ragionare sulle potenzialità della sua penna: “quando la gente ha iniziato a darmi i feedback, mi sono chiesto perché il libro piaceva, e riflettendoci, penso che le paure di Archy sono le mie paure, ma sono anche le paure che hanno tutti. I suoi dilemmi sono quelli che ci accompagnano da sempre, ma a cui scienza e religione non danno risposte soddisfacenti. Per questo il finale non è un semplice “e alla fine muore”, ma prova a mostrare cosa succede quando si inizia a ragionare in un ambiente abituato ad andare avanti solo con l’istinto. Perché la natura non ti permette di rallentare”.
Prima di lasciare Zannoni al pubblico di Fiesole, gli chiediamo quali sono i suoi riferimenti letterari: “se devo scegliere dico Ágota Kristóf e Victor Hugo, ma anche Borges”. E gli chiediamo anche di consigliare un libro, un disco e un film per i lettori di Lungarno: “come film “American Pop”, di Ralph Bakshi. Come disco “Another one”, non l’ufficiale, le demos, di Mac DeMarco. Come libro “Saggio su Pan” di James Hillman, o “Avere tutto” di Marco Missiroli”.