In macchina, di notte, negli anni Novanta
In queste righe proveremo a raccontarvi una generazione, quella di cui spesso non si ha ricordo. La generazione che vedeva migliaia di giovani in tutta Italia muoversi nel weekend, per andare a consumare ore ed ore dentro ad enormi scatoloni di cemento armato.
C’erano le cosiddette “macchinate“, carovane di ragazzi stipati a ritmo di musicassette e di impianti stereo pompati verso la templare destinazione denominata discoteca.
Gli spazi erano a volte tentacolari, si ballava e si ascoltava musica in una aggregazione sociale ad ora inimmaginabile: mai come in quelle notti i ragazzi hanno dato libero sfogo ai propri istinti. Di quelle scatole di cemento, alcune spartane ed altre dei veri e propri set cinematografici, è rimasto poco o niente oggi. I muri sono diventati, qualora vi fossero ancora, tele per graffiti, sicuramente esposte davanti a quello che rimane dei divanetti. Pochi, peraltro, perché a differenza di oggi l’idea del club era ballare, senza scimmiottare Al Pacino in “Scarface”, murato ad un tavolo con dello champagne. Ballare, senza volere fare aperitivi in giacca. Il motore era altro, era la musica, dalla techno alla trance, passando per la progressive e la house. Le star erano i DJ. Le installazioni e le coreografie il set. Il regista era l’Art Director.
Ma torniamo al cemento residuato, all’archeologia di una generazione. In Toscana tutti i luoghi storici non esistono praticamente più. Il Club Imperiale di Tirrenia, dopo avere concepito l’idea di apertura per 12 ore filate con il “mezzanottemezzogiorno”, adesso riveste a quanto pare il ruolo di sala slot. Sorte diversa è accaduta all’ Insomnia di Ponsacco, adesso divenuto palestra; peggio è andato al Kama Kama di Capezzano Pianore, divorato da un rogo pochi anni fa. Per avvicinarsi a Firenze possiamo citare l’empolese Jaiss, patria della techno in quegli anni, da poco riconvertito in supermercato. Poi c’era l’Happy Land di Campi Bisenzio, dove tutti abbiamo messo piede, le cui serate Torquemada sono rimaste scolpite nella storia di una generazione: la visione del locale adesso è degna di uno scenario post-bellico in Bosnia.
Tutto questo non esiste più, ed è una cosa fisiologica. La condivisione degli spazi e del ballo è passata sempre più in sordina, pandemia a parte, sorpassata in curva dal mood in cui si tende spesso a guardare al club come ad uno splendido yacht sul quale salire per sfoggiare costosi capi di abbigliamento. Si pensi ad esempio alla criminalizzazione dei rave party, che in quegli anni erano condivisi da decine di migliaia di ragazzi. Si pensi alle varie manifestazioni musicali di strada quali Love Parade o Street Parade, che hanno segnato il percorso di una cultura e di un movimento di massa musicale (e non solo) giovanile. Il web è pieno di testimonianze (ed usiamo questo termine forse improprio apposta) di quella che a molti sembrava nella peggiore accezione sottocultura. Ma è limitante questa analisi: i ragazzi che andavano a ballare non hanno nemmeno più una “tomba” da visitare, ma solo gruppi social dove condividere foto o esperienze di una generazione, forse la più bistrattata forse dal dopoguerra ad oggi, almeno in Italia.
Tutto questo è solo un ricordo per chi ha vissuto quel periodo. Per molti altri è qualcosa che non è mai esistito, se non in funzione di etichette che si rifanno a questioni di ordine pubblico o tossicologiche. Non vogliamo celebrare quello che è successo in quegli anni con lo spirito del Bar Sport, vogliamo solo ricordare che sono importanti gli spazi di aggregazione, e Firenze lo sa bene in questo momento. Che non si può mai fare finta che qualcosa non sia successo. Specialmente se i protagonisti sono la musica ed i ragazzi.