“Ma come fai a prevedere quello che servirà?” chiedeva l’irrequieta e maestosa Monica Vitti, sullo sfondo di un “deserto rosso” che nel ’64 consegnò alla cinematografia italiana 120 minuti di inquadrature fisse, in campo lungo, e una sequenze di battute destinate a diventare, 50 anni dopo, gif animate o caption da citare sotto alla foto di un materasso lasciato per terra, con su scritto “ALIA”, in una strada di Rifredi.
C’entra Antonioni in tutto questo? Bah, come diceva un mio amico di paese, che poi ha fatto una finaccia, forse per i Camparini alle 11 di mattina al circolo, forse per le stagnole, Antonioni c’entra sempre, nei discorsi di quelli che contano.
Sorrido, giro in motorino per Firenze in una notte vischiosa e vado a trovare la mia amica Rubina: in piazza Dalmazia i bambini fanno le capriole e imitano il rumore del semaforo che fischia l’arrivo della tranvia. Trrrru.Truuuu.
Rubina si è trasferita a Rifredi dopo che si è sposata con Rocco, operaio acrobatico di Cosenza, e i suoi genitori, contrariati, le hanno tagliato i viveri: lei viene da una famiglia nobile, ha sempre vissuto in campagna o in bilocali soppalcati in Santo Spirito – le davo tempo un paio di mesi nella nuova vita – e invece son passati quattro anni, un gatto e dieci poster femministi appesi e poi staccati sui muri di tante case gentrificate.
Scendiamo a prendere un cornetto Algida al baretto all’angolo, lo bagniamo nel Cynar, lei parla col Rosso, con lo Spina, con un tizio che tutti chiamano Bocelli: ricordano quel pomeriggio in quarantena quando organizzarono i turni per la consegna della spesa agli anziani del palazzone rosso nella parallela. Gente con delle storiacce alle spalle, dice lo Spina.
Si salutano facendo il punto di quanto devono incassare dallo Stato: cassa integrazione, sussidi, nessuno ha ancora visto un euro. “Menomale me ma’ un l’ha portata via nemmeno il coronavirus”, dice il Bocelli, “sennò voglio vedere come farei”.
Saliamo sul motorino e ci muoviamo verso Serpiolle, a caso, giusto per prendere vento e parlare, come da adolescenti: Rubina sussurra che la periferia le ha salvato la vita e che a Firenze le cose magiche sono sempre accadute nei luoghi appartati.
Mi racconta dei comizi sui contagi di Paolino il ferramenta, della rivincita della merciaia, che non ha mai lavorato quanto adesso, del bambino della coppia di infermieri del secondo piano a cui sta insegnando un po’ di inglese per tenergli compagnia. Mi parla di Ling che cuce mascherine colorate per tutti e non vuole essere pagata, dei pomodori condivisi sul terrazzo della vicina sarda, degli studenti fuori-sede che sono passati a cena e hanno finito per commuoversi, insieme a Rocco, guardando le foto di Tropea, delle panchine nel giardino condominiale che sono diventate circoli Arci, ora che i circoli Arci sono chiusi.
Rubina dice: “Vincere non abbiamo vinto, né a Rifredi né in San Frediano. Perché la gente è sempre più povera e triste dappertutto e allora ma che vuoi vincere?”.
Fuori dal Quartiere 1, almeno, non c’è un prima o un dopo e il tempo ha un verso solo.
Fra il retrogusto di liquore e panna, il profilo della cupola del Brunelleschi in lontananza e un cielo desaturato, pare che le periferie gridino inni e lamenti insieme.