Il dramma dell’uggia domenicale è cosa nota, aumentano esponenzialmente le vittime del Sunday Blues. 

Qualcuno punta il dito contro le Chiese, incapaci di replicare i sold out del glorioso passato. Altri inveiscono contro le televisioni, ree di aver trasformato il campionato di calcio in un indigesto spezzatino. La verità è che, liberi dallo stritolamento dei giorni feriali, la domenica arriva puntuale e dissacrante il confronto con noi stessi. 

C’è chi lo esorcizza con inquietanti e psicotiche “giornate al centro- commerciale”, chi sale nel Chianti a ingozzarsi di vino e carni rosse. Chi invece usa la domenica come lettino da ospedale, dove una flebo immaginaria ripara danni e postumi degli abusi del sabato sera. 

“Visto che è Domenica, mi avvalgo della facoltà di non svegliarmi” diceva un tale.

Questo repertorio, ahimè o per fortuna, non mi appartiene. 

Il lusso della domenica non è svegliarsi tardi, ma svegliarsi quando si vuole. Impiegare quarantacinque minuti per il nobile rito della rasatura della barba. Prendere il caffè al bar come piacere del gusto e non come stimolante nervoso. Andare al chiosco del tuo stoico edicolante di quartiere per comprare il buon vecchio giornale che profuma di carta stampata.

Succede però che il teatro della modesta passeggiata domenicale muti il suo arredo urbano. 

La nuova tramvia che solca Via dello Statuto con incedere sornione ma costante, ha sensibilmente modificato la fisionomia del quartiere. Che spoglio dei vecchi alberi e orfano del nevrotico traffico che lo affliggeva, si mostra in tutta la sua nudità. Nudo semi-integrale la domenica mattina, quando ci si può imbattere al massimo in una coppia di vecchi amanti vestiti a festa o in un paio di cagnolini che con la scusa della pipì portano i loro padroni a meditare.

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Capita però che il deficit di attenzione riveli prepotentemente la sua insolenza. 

Così chiudi la porta di casa con spensieratezza. Telefono spento e chiavi che restano a farsi compagnia nella tasca del cappotto, usato la sera prima. Scansi la bestemmia per l’inconsapevole cristianità che t’ingrazia la domenica, e con solenne ma dignitosa lentezza ti affacci alla pubblica via. 

Quattro passi e pesti una merda gigante. Da quando i cinghiali sono diventati animali domestici? La bestemmia parte con il cambio automatico. La repentina trasformazione dei marciapiedi cittadini in maleodoranti e marroni campi minati è una piaga più potente delle cavallette d’Egitto. 

Tali premesse scoraggerebbero qualsiasi avventore, ma le mie chiavi sono al calduccio.

Ora cosa succederà? Una bomba al chiosco di giornali? Colazione con il caffè di Sindona?

Patientia animi occultas divitias habit. 

Avanti.

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La via mi offre uno scenario vario e singolare. Una signora di mezza età posa dei fiori sotto un palo della luce, un enorme fascio con sopra scritto Pasquale. 

“Condoglianze Signora, ha perso da poco un suo caro?” si fa avanti commosso un passante, che già prefigurava un tragico incidente mortale. 

“Si, il mio amato Pasqualino, il leccio che avevo adottato”. 

“Non si preoccupi Signora, accanto sta crescendo un bellissimo Carpinus Betulus” .

“Ah, un altro straniero?”, chiede accigliata la vedova arborea. 

“No Signora, si chiama Guglielmo!”.

“Ah … ma tanto non sarà mai come il mio Pasquale”.

Il passante termina sconsolato il botta e risposta e prosegue il suo cammino.

Una bici viaggia come un proiettile sui binari del tram. Alla guida un ragazzino vestito da rapper che urla inebriato della velocità. Poi accade che la ruota della bici s’incastra nel binario e il novello Cipollini fracassa al suolo come se gli avessero sparato. Ride sguaiato, si rialza e riparte.

Tre ragazzi fanno capannello sotto il totem della tramvia Oriana Fallaci. 

Un altro sul ciglio della strada, guardingo e sospettoso, fa il palo con passione e sentimento.

Dall’angolo della via spunta un ragazzotto con gilet arancione. Il più alto del gruppetto, magro come un fantasma e con gli occhi gialli e spenti, si stacca dagli altri e con un fischio magistrale richiama l’attenzione del consumatore. Lo raggiunge e lo accompagna al bancomat antistante. Attende che prelevi dei suoi sudati guadagni, e insieme s’inabissano in una stradina più isolata. 

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L’istinto di sopravvivenza mi conduce a rifugiarmi nel piccolo bar. 

Peccato che nello stesso istante entri anche un Suv. In tali casi chi ha la precedenza?

Con lo pneumatico di un trattore che si arresta a pochi centimetri dall’ingresso, scende un omino esagitato con la testa incastonata nel collo. Non riesce a intercettare il mio sguardo sdegnato, ma è comprensibile. I suoi occhi sono all’altezza del mio addome. Non ha fretta l’astrofisico. 

Si siede spaparanzato su un tavolino e ordina sbraitando la sua colazione.  Per evitare conati di vomito, prendo in fretta il mio caffè e saluto la curva. E qui accade l’imponderabile. 

Sulla fiancata bianca lucida campeggia a caratteri cubitali un antico e nobile detto francese: “SUV GRANDE CAZZO PICCOLO”. Due ragazzi ripartono in motorino a tutta velocità, giustizia è fatta. 

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Cerco consolazione nel chiosco di giornali.

Accanto a Mohammed, che regala splendidi e sinceri sorrisi in cambio di pochi spicci, le affascinanti civette, rapitrici di sguardi curiosi nel loro approccio minimalista. 

“SI È SPENTO IL GIOVANE USTIONATO”. 

“STACCATA LA CORRENTE AL CIMITERO: DA DUE GIORNI MORTI SENZA LUCE”. “CINESE UCCISO A COLTELLATE: È GIALLO”.

Questa domenica mattina pare uno scherzo senza fine.

Compro alla svelta il giornale e a gambe levate prendo la direzione di casa, nella speranza che nelle more un meteorite non polverizzi Via dello Statuto, tramvia e betulle.

Mi passano accanto i guerrieri in divisa. 

Corridori e ciclisti della domenica, acchittati a modo e svegli da un’ora indicibile.

Io sono agli antipodi da tutto ciò. Del resto, anche l’Altissimo per sei giorni lavorò e il settimo si riposò. 

Me ne torno al calduccio e ottempero all’esempio divino.