“Ma quello c’è sempre stato?”, “Oddio, pensavo si buttasse!”, e via dicendo. Ho portato una classe in piazza della Signoria pensando di parlare dei Medici e mi sono trovata, invece, a cercare risposte a domande sulle quali ero ben poco preparata. “Si tratta di una scultura di un artista che sta attualmente esponendo agli Uffizi, Antony Gormley”, ho tagliato corto. Ma la mia coscienza non poteva ignorare che in quella frase si esauriva la mia conoscenza sull’argomento. Sono corsa ai ripari e ho appreso che Event Horizon è l’ultima di una lunga serie di installazioni che hanno preso vita in diverse città del mondo: Londra (2007), Rotterdam (2008), New York (2010), São Paulo e Rio de Janeiro (2012), Hong Kong (2015). Tutte prevedono la presenza di una figura umana in fibra di vetro, modellata sul corpo dell’artista, che si affaccia da grattacieli ed edifici particolarmente rappresentativi della città.

Dovunque, gli interventi dell’artista sullo skyline delle città hanno destato stupore e preoccupazione: “Le persone si fermano. Ne notano una; immediatamente fermano qualcun altro per la strada, indicando la statua col dito. Ne derivano assembramenti di persone, e piuttosto in fretta essi si rendono conto dell’ambiente che li circonda in modo del tutto nuovo[1]. Lungi dal voler richiamare l’idea di suicidio, Gormley chiama in causa piuttosto quella di terapia, in particolare l’agopuntura: “l’inserimento di una scultura è come quello degli aghi dell’agopuntura in un corpo collettivo. Il punto è proprio osservare come il corpo, inteso come un intero, reagisce a queste presenze”.

Il principio è quello del rovesciamento: le persone osservano una figura che osserva; si chiedono cosa ci faccia lassù ed essa riflette la domanda uguale e contraria: e voi cosa ci fate laggiù? “Il principio dinamico dell’opera è la relazione tra immaginazione e orizzonte, coinvolgendo il cittadino in un gioco di ricerca e – forse – scoperta”. La città diventa così scenario di rêverie:“l’occasione di riflettere sulla natura umana e sul nostro posto in una più ampia prospettiva”.

[1]   Traduzione dell’autrice da un’intervista del New York Times (18/3/2010)