Ci sono cose che non perdonano.

Tipo le zip incastrate, la cefalea a grappolo, il super attack impiastricciato sui polpastrelli, gli auguri per le feste comandate.

Nel mio quartiere ci siamo reciprocamente comunicati – lo abbiamo fatto in silenzio, con molto rispetto, vorrei dire – che quest’anno non è banda. A Natale camminavamo tutti a capo chino, con dei sacchettini sghembi, colorati e penzoloni, ma nessuno che facesse un accenno a.

Pure con la Pasqua si era detto di comportarci ugualmente sennonché qualche settimana fa, nel piccolo supermercato della zona, hanno assunto una nuova impiegata, una ragazza con gli occhi distanti e una piccola fessura fra gli incisivi, una persona perbene vorrei dire, con tanti spazi liberi nella geografia del volto e io non lo so, di solito mi perdo un poco in mezzo a lembi di pelle vuota, e insomma questa ragazza non poteva sapere, o non è stata avvertita vorrei dire, fatto sta che negli scorsi giorni, nell’andirivieni tumultuoso dei preparativi per i banchetti, la sua voce giovane e argentina capriolava sul rullo automatico delle casse: “Tantissimi auguri di Buona Pasqua a lei e famiglia”, ripeteva.

Allora è capitato che molti di noi si voltassero indietro, un po’ spaesati vorrei dire, e che i più educati abbiano risposte velocemente “grazie, grazie” mentre alla bell’e meglio infilavano due baguette nelle buste bianche della spesa, è capitato che tanti abbiano fatto finta di nulla, porgendole frettolosamente il bancomat.

Non so perché, forse quando la Pasqua cade così alta, come quest’anno che pare già estate, secondo me il tempo si squaglia. Non passa, si scioglie. Forse quando la Pasqua cade così alta, nel mio quartiere, dove abbiamo silenziosamente smesso di farci gli auguri, resta una patina vischiosa e insopportabile sull’estremità delle dita che macchia tutto, anche la buona creanza di una ragazza gioviale che fa il suo mestiere mentre scannerizza su un monitor colorato le nostre nevrosi e le molte paure.

molte paure.