Se l’anno scorso siete capitati al Florence Short Film Festival, magari avrete visto un corto ambientato tra le vie di Santo Spirito con una protagonista dai capelli rossi. Si intitolava Il fascino di chiamarsi Giulia, e la persona che l’ha girato è seduta a tavola di fronte a me. Si chiama Samuel Alfani, sa cucinare la zuppa di cipolle, abita in Oltrarno e fa film. Mi racconta che con quel corto passato all’Odeon è stato anche a Cannes, che ha studiato cinema e teatro a Barcellona e Madrid, e che adesso è tornato qui, per restare. Dato che di registi fiorentini non ne ho conosciuti poi tanti, e forse nessuno che non stesse pianificando la fuga, ci ho scambiato due parole su cosa significhi fare cinema a Firenze.
Partiamo dall’inizio. Chi sei tu?
Sono un regista fiorentino di 31 anni. Una persona che vuole catturare immagini. A volte faccio fatica a rimanere concentrato sulla vita reale, perché tutto ciò che vedo rappresenta una potenziale fonte d’ ispirazione. Osservo ogni cosa, e la maggior parte delle volte quello che vedo lo trasformo, filtrandolo, per poi riutilizzarlo in qualche personaggio o in qualche scena. Questo atteggiamento mi fa sembrare agli occhi degli altri un sognatore perennemente distratto, e in parte è vero. L’unico momento in cui riesco a essere veramente pragmatico e quando sono sul set.
Il fascino di chiamarsi Giulia è il tuo primo esperimento da regista: uno strano film che ricorda una conversazione tra Wes Andreson e Peter Greenaway, con una trama surreale e tantissimi colori. Cosa hai voluto fare con questo lavoro?
Sicuramente c’è l’influenza di molti autori che adoro. L’esperimento di Giulia nasce dalla ricerca di uno stile personale che possa, in qualche modo nel tempo, essere riconosciuto. Molto spesso, soprattutto nel cinema indipendente, si presta attenzione quasi unicamente alla trama, senza soffermarsi troppo su costumi, scenografia e trucco, ad esempio. Io credo che in un film tutto debba essere di supporto alla narrazione; un regista deve stare attento anche al minimo dettaglio, perché nel cinema si vede tutto.
Negli ultimi anni il panorama creativo fiorentino sta attraversando un periodo di fermento che non si vedeva da un po’: band, artisti e scrittori interessanti si stanno facendo conoscere sia qui che in tutta Italia. Che cosa sta succedendo per quanto riguarda il cinema?
Il cinema è un po’ una cosa a parte. Per produrre un film, anche quando si tratta di un piccolo progetto, sono necessarie tante risorse: una troupe di tecnici, attori professionisti, noleggio di materiali, e tutto questo ha un costo elevato. Fortunatamente sono molte le persone competenti che si rendono disponibili, soprattutto se il progetto è interessante e ambizioso. Abbiamo la fortuna di vivere in una città ricca di location pittoresche, alcune conosciute e riconoscibili in tutto il mondo, altre meno inflazionate ma non meno affascinanti.
Sia in campo musicale che letterario, un fattore caratteristico di questa rinascita è stata la tendenza a unire le forze. Basti pensare agli scrittori del vecchio Caffè Notte, alle nuove label e alle serate che raccolgono sotto uno stesso nome artisti diversi. Esiste una rete tra attori, sceneggiatori, registi, produttori e distributori fiorentini e toscani?
Una rete sta prendendo consistenza tramite passaparola, il modo migliore per trovare le persone che andranno a formare la troupe è per me proprio questo. A Firenze non siamo in tanti, e ancora meno sono quelli che si occupano di cinema. Il meccanismo quindi si innesca in maniera quasi automatica, e favorisce la nascita di collaborazioni interessanti basate sullo scambio reciproco.
Il cinema italiano ha una lunghissima tradizione da cui è difficile affrancarsi per fare qualcosa di diverso. Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito a una serie di bei tentativi di sperimentazione (sto pensando al surreale Into Paradiso di Paola Randi, all’ingiustamente bistrattato Reality di Garrone e all’esaltante Jeeg Robot). E a Firenze, c’è qualcosa di nuovo?
Purtroppo e a malincuore, credo di no. Penso che per creare qualcosa di nuovo si debba smettere di concentrarsi sullo spettatore e cercare piuttosto a far emergere quello che realmente abbiamo dentro, senza seguire mode o generi in voga. La lunghissima tradizione esiste, ma in Italia tanto le case di distribuzione quanto le produzioni mettono avanti a tutto il riscontro economico. Questo secondo me non potrà mai andare di pari passo con l’arte di fare un film onesto. Fortunatamente ci sono le eccezioni. Oltre a quelle che hai già citato sono rimasto piacevolmente colpito da L’attesa di Piero Messina, un lavoro che secondo me unisce contenuti interessanti a un’accurata ricerca estetica, rimasto nelle sale credo solo tre settimane.
Hai iniziato il tuo percorso a Barcellona, poi a Madrid. Sei tornato a Firenze e hai deciso di fermarti. Cosa ti ha convinto che valesse la pena lavorare qui?
All’inizio sono stato quasi costretto, ma poco a poco mi sono fatto rapire dal tenore di vita che c’è a Firenze. Posso rimanere per giorni nel mio quartiere in Oltrarno, qui ho tutto quello di cui ho bisogno e rappresenta la mia più grande fonte di ispirazione.
In Italia, quando si dice cinema si pensa a Roma: la fabbrica dei sogni è tutta lì. Non hai mai pensato di spostarti?
Roma è sicuramente lo scenario italiano più produttivo, ma per il mio lavoro emergere in una città come quella è molto più difficile. Ci sono gavette infinite e molta competizione. Inoltre, la mia visione e il mio modo di lavorare sono più in linea con la tranquillità di Firenze che con il caos di Roma. Sogno di creare qui una sorta di piccola Cinecittà indipendente.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
In primis portare a termine la post-produzione del mio nuovo cortometraggio Rails, sperando di poterlo presentare al Festival di Venezia. Poi c’è Kerigma – la maschera dell’apparenza, ormai sei anni di scrittura e nove stesure mi hanno dato la consapevolezza che questo film debba essere realizzato e mi piacerebbe riuscirci con la partecipazione attiva di enti del mio quartiere e dell’intera città. Ultimamente ho iniziato a scrivere anche un altro lungometraggio che si chiamerà Into the dark side, ma è ancora in fase embrionale.