“Last year I stayed with this woman, she always want to go to bed at nine, after two months I said: if you go to bed at nine and I come back to work at 10, when we fuck exactly?”

                                                                     (Un businessman con forte accento italiano a un altro, davanti a un bicchiere di vino durante Pitti, giugno 2015)

Pitti è quel posto dove manifattura, tecnologia (accidenti, questo pellame sintetico al tocco sembra davvero pelle di bambino inca!), estro, sregolatezza (il tipo nello stand davanti a noi ha la patta aperta), eccesso (quei pantaloni taglio Luigi XIV fanno cagare) e molti altri temi si incontrano. Orde di uomini dai look incredibilmente variegati – dal vero gentleman a quello vestito palesemente da idiota – stanno per sbarcare nella nostra piccola città e tra una fiorentina abbastanza cotta, grazie e un lamento per il clima umidissimo e i taxi introvabili e Uber non disponibili i temi della creatività, della non-stagionalità, del design resistente ai trend e al contrario quello di ultratendenza saranno sicuramente al centro dei discorsi. Non è un caso che il tema guida della fiera quest’anno sia Generation(s): velocità che comprime il tempo, generazioni che si intersecano, età come stato mentale. Sezioni come Make (savoir faire artigiano), Unconventional (lusso undergound), Touch (stilisti più visionari ed edgy), Open (no gender), My Factory (stilisti indipendenti) sono state potenziate in termini di spazi espositivi e finezza nello scouting. E insomma, non vediamo l’ora di vedere le nuove proposte.

Che poi non ci scordiamo mai che il problema del superlavoro creativo ha portato un bel po’ di news nel mondo della moda negli ultimi mesi del 2015.

Brevemente: 1) il direttore creativo di Lanvin, Alber Elbaz, ha rassegnato le sue dimissioni; 2) Raf Simons ha fatto ciaone a Dior; 3) il super brit super cool Jonathan Saunders ha chiuso improvvisamente battenti della sua azienda – mancanza di soldi o poca ispirazione, non molto chiaro; 4) da Givenchy dichiarano che la loro prossima collezione autunno inverno verrà rivelata solo ad aprile, cioè al momento dell’arrivo in negozio.

Dinamiche diverse con un grande comune denominatore: regà, così ‘gna si fa. Perché due, quattro, a volte anche sei collezioni l’anno (nel caso di Raf Simons: due di prêt-à-porter, due di haute couture, due pre-collezioni per Dior. Più due per la sua omonima casa di moda, fanno otto!) sono una roba che non si augura a nessuno. E che, detto fra noi, serve solo a tenere in piedi un’economia dai fatturati incredibili, ma che cela probabilmente il bisogno essenziale di fermarsi e pensare a ridefinire le modalità di fruizione e interazione in una chiave realmente contemporanea, che tenga conto dell’ambiente e delle nuove generazioni, nonché della noia galoppante dovuta sovraesposizione mediatica – la sensazione di già visto e rivisto non è gratificante.

Come fare quindi a tenere in piedi il baraccone? La pelle sintetica di bambino inca è un buon esempio. E staccarsi da Instagram un altro grande passo.

 

di Simona Santelli