Le conversazioni migliori si hanno in treno; per questo motivo ho deciso di preparare il dialogo con il ricercatore Antonio Fanelli, figura di spicco per gli attuali studi sulla figura dello studioso e antropologo Ernesto de Martino, mentre ero in viaggio su una Freccia. La conversazione che ne è scaturita ha portato a una commistione di idee tra la figura di de Martino, antropologo tra i più importanti del Novecento italiano per i suoi studi su folklore, magia e cultura orale, e l’omonimo istituto con sede a Sesto Fiorentino.
Come affermato da Fanelli, «de Martino è una delle figure più importanti della cultura del secondo Novecento. Aveva avuto la grande intuizione di fare una ricerca etnografica con fonti orali, mentre prima, questa stessa ricerca era fatta con questionari». Proprio sulla necessità di conservare e far conoscere le fonti orali si basa l’attività di ricerca e conservazione dell’Istituto Ernesto de Martino, la cui storia ha inizio subito dopo la morte dell’antropologo per volere di Gianni Bosio, vero protagonista e figura chiave dell’istituto. Fondato per dare continuità alle ricerche sul mondo popolare e proletario e al “marxismo critico”, si concentrano al suo interno studi e testimonianze che confluiscono, tra i vari supporti e documenti, in un archivio sonoro specializzato contenente materiali musicali, tra cui danze, riti e rappresentazioni popolari, testimonianze sul movimento operaio, manifestazioni sindacali e politiche.
Questi aspetti di studio si incrociano e si connettono con le ricerche di de Martino, una figura impegnata politicamente che, afferma Antonio Fanelli, «è il primo in Italia che attacca i primi studi su folklore che si occupavano solo dei canti poetici e tralasciavano i canti politici, la Resistenza». Uno dei suoi più grandi contributi è quello relativo alla costituzione di una “scienza che non c’era”, l’etnologia, che innova, tra i vari ambiti, la storia delle religioni. Questa disciplina è «un punto di snodo e raccordo tra tutte le innovazioni delle scienze sociali che derivano dal Secondo dopoguerra; de Martino le immette nell’etnologia a cui assegna un compito enorme: scienza in grado di superare i limiti dell’Europa in crisi e di costituire una nuova tappa dell’Umanesimo, un Umanesimo etnografico che si apra anche all’altro».
L’apertura all’altro, la necessità di un’osservazione partecipante non sono soltanto elementi che richiamo il lavoro di de Martino nel secolo scorso, ma, anche oggi, sono strumenti che aiutano a riesaminare le trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni. All’interno dello statuto dell’istituto, per esempio, questi concetti sono inscindibili da quello di «classe, intesa come formazione sociale e culturale che nasce e si trasforma nella realtà», verso una concezione della disciplina antropologica come «riflessione critica trasversale su qualunque società».
In copertina: Franco Pinna, Ernesto de Martino in compagnia di Antonio Lo Sasso nelle campagne di Albano di Lucania, 11 agosto 1956.