Quasi cinquant’anni dopo la sua prima uscita, torna in libreria Io, la Romanina, il memoir di Romina Cecconi, pioniera e icona trans italiana. Pubblicato nel 1976 da Vallecchi e subito al centro di uno scandalo nell’Italia moralista del tempo, il libro esce ora per le plurali editrice, nella collana Le radici, arricchito dalla prefazione di Porpora Marcasciano, dalla postfazione del regista Fabio Mollo e da un inedito inserto fotografico d’epoca.
Romina Cecconi – tra le prime persone trans in Italia a sottoporsi a un intervento di riassegnazione di genere e a ottenere la rettifica anagrafica – racconta la propria vita senza retorica: gli amori, il lavoro sessuale, il circo, il carcere e il confino, sullo sfondo di un Paese ancora impreparato a riconoscere la libertà e la diversità.
Un memoir personale e politico, che oggi torna a parlare al presente con la stessa urgenza di allora. Ne abbiamo discusso con Romina Cecconi, che ci ha raccontato cosa significa rileggersi a distanza di mezzo secolo.
Il libro è uscito per la prima volta con Vallecchi nel 1976. Perché l’editore fiorentino aveva deciso di pubblicarlo? Qual era stato il contatto?
Fece una collana diversa dove c’era anche il libro di un playboy, un gigolò livornese. Il mio fece 12.000-15.000 copie. Adesso è un’edizione quasi introvabile e per questo ho deciso di ripubblicarlo. Verrà tradotto anche in inglese dall’Università di Boston.
Quando sono tornata a Firenze alle Murate per la presentazione mi è sembrato di tornare a casa perché lì ho fatto tutte e tre le sezioni: al minorile, al maschile anche se ero già donna e poi quando non avevo i documenti nel 1972 e ho dovuto fare la visita per entrare al femminile. Pensa, per una minigonna. Ma è successo perché ero io a portarla. C’era ancora la buoncostume, anche se ero donna e avevo i documenti da pochi mesi con il nome Romina Cecconi. L’agente mi portò comunque in questura dove c’erano le mie colleghe, sia donne che trans.
Cosa vuol dire per lei tornare a Firenze? Cosa prova?
Ogni tanto torno perché ci ho vissuto quarant’anni, venivo da San Donnino. Dico sempre: “un nome, una garanzia”. Poi nell’80 mi sono trasferita a Bologna perché avevo trovato un nuovo amore, un giocatore di pallacanestro e ho lanciato la moda del toy boy perché mio marito aveva 26 anni e io 36. Ci siamo sposati in palazzo Vecchio. Lo stesso con Massimo a Bologna: lui aveva 21 anni e io 41. Ho vissuto in piena libertà andando al momento, ora mi rendo conto che ho fatto storia.
Tutti la ricordano con grande entusiasmo…
Nel 1971 ho comprato la casa in via de’ Rustici e mi piaceva frequentare il rione, le trattorie (Anita e Benvenuti). Era un rione vivo ma adesso è cambiato, i fiorentini veri non ci sono più. In via de’ Neri avevo l’orefice che quando mi sono sposata mi ha regalato le fedi. Quando passavo mi salutavano tutti: ero sempre elegante, avevo un po’ di educazione, ero simpatica. Se un ragazzo faceva la battuta io ne facevo una sopra ed era già conquistato.
Non le manca Firenze?
Firenze era stupenda negli anni ‘60 – ‘70. Quelli non ce li leva nessuno. Negli anni ‘80 ho iniziato a venire via perché la città cambiava.
Ma anche lei ha portato tanto cambiamento ovunque si trovava, ad esempio nelle pagine in cui parla del confino, ha reso in un paesino le donne coscienti della loro femminilità.
Volturino era vent’anni indietro, ora lo chiamano borgo. Io ho ancora contatti perché ero diventata una paesana. Ero simpatica, sapevo comportarmi e quindi mi invitavano a bere. Mi rammentano ancora. Ho lasciato un bel ricordo.
Oltre a portare un cambiamento nella coscienza delle donne…
Io mi arrangiavo: facevo la ceretta, preparavo le spose facendo un trucco leggero. Le spose però mi chiedevano di non truccarle troppo per paura di essere lasciate all’altare. Ero sempre invitata ai matrimoni, anche a quello del sindaco. Facevo le punture, mi prestavo. Se ripenso al primo impatto quando sono arrivata in minigonna, bionda, truccata, si facevano addirittura il segno della croce. Poi io ho capito e ho iniziato a togliere il trucco: sono cambiata per affrontare le persone del paese. Ripensandoci ora mi sono anche divertita a shockare perché non sapendo cosa fare mi cambiavo due-tre volte al giorno. Le ragazze mi guardavano, tutte. Era un paese di vedove: molti uomini erano emigrati in Germania e si erano fatti altre famiglie. Mi raccontavano le loro vite.
E loro si aprivano con lei parlandole della sessualità che avevano con i loro mariti?
Spesso ero io a raccontare le mie avventure.
Ma le faceva anche sognare. Immagino che ai loro occhi la sua vita appariva come un film o un romanzo.
Feci anche amicizia con uno studente, non solo con donne. Lo incontrai sull’autobus. era appassionato di fotografia e mi feci ritrarre in mutandine e reggiseno. Teneva una mia foto nel portafoglio. Ricordo che quando la madre la trovò mi fece una sceneggiata in piazza. Andavo spesso al bar, le persone mi guardavano dall persiane semichiuse. Ribadivo sempre che venivo dal continente. Facevo scandalo anche solo portando le maniche corte. Forse per loro ero un’extraterrestre.
O forse una diva di Hollywood?
Avevo solo minigonne di 15 cm sopra il ginocchio ma cercavo di mettere le più lunghe.
Parlando con lei il suo entusiasmo la contraddistingue, ed emerge anche dalle pagine del libro. Come ha fatto a mantenerlo con tutte le cose brutte che le sono capitate?
Sono ironica. L’ironia mi ha salvato sempre anche quando piangevo tutto il giorno. Quando mi ero calmata mi guardavo allo specchio, mi truccavo, mi facevo bella e andavo in discoteca.
Nel libro però si definisce anche timida.
La timidezza me la facevo andare via, aprivo le danze nelle discoteche e poi andavo “in ufficio” all’angolo tra via Tornabuoni e via della Vigna.
Le faccio una domanda sull’operazione: lei ha definito il dottore un Michelangelo che tirava fuori l’opera dal grezzo. Come sono stati quei giorni?
Scappai da Firenze perché avevo il coprifuoco, quando mi trovavano fuori mi facevano la multa. Era ancora un’Italia post-fascista con la buoncostume. C’era una persecuzione contro gli omosessuali che venivano chiamati con più nomi: “pervertiti”, “pederasti”. Ora ci sono parole più addolcite. Io ero presa di mira perché mi comportavo come una cittadina qualunque andando al cinema e nei locali. Scappai perché volevo operarmi. Un poliziotto che frequentavo mi avvisò che stavano preparando per me un soggiorno obbligato e io avevo già l’appuntamento a Losanna col professor Meyer. Aspettai tre mesi in Svizzera facendo la “dolce vita” di Losanna e venni subito accettata. Conobbi anche le Chaplin e mi portarono a Ginevra dove conobbi Vittorio Emanuele e Marina Doria. Mi presentarono come una ragazza fiorentina che si divertiva a scrivere. Ho fatto una bella vita nell’attesa.
Ma ha dato il via ad una legge…
All’apertura. Io ho contribuito nel mio campo e nel mio genere alla libertà. Adesso siamo arrivati al matrimonio civile anche per i gay. Io a quei tempi ho dato il là. Mi definiscono un’icona da ringraziare. Siamo arrivati alla tolleranza e ai diritti. Ma non sapevo, agivo d’istinto. I social oggi hanno peggiorato tutta la situazione: non c’era tutta questa cattiveria una volta nella popolazione. Una volta le persone erano più buone. Non mi piace questo mondo che si presenta, non mi piace quello che leggo a volte e anche nel nostro campo aumenta l’omofobia.
Oggi le persone hanno paura del confronto, del contatto?
Negli anni ‘80 tutti avevano paura dell’Hiv. Eravamo tutti diversi, ora siamo tutti omologati. Sono arrivata a questa età che è un privilegio, ma è anche una rottura invecchiare e ingrassare. Sono stata bella, mi sono tolta tante soddisfazioni. Una vita che ho affrontato giorno per giorno senza studiare. Sono rimasta vedova del primo marito, ho aperto un’edicola di giornali per “smettere” ma poi non ho sposato il mio compagno di Bologna.
Ha rimpianti?
Qualcuno sì perché quando dovevo mettere via i soldi sono sempre stata una cicala con macchine gioielli. Sono stata anche rapinata nel 1979. Con gli ultimi soldi andati in America. Mi sono divertita tra New York, Los Angeles, San Francisco e il Messico. Andai via per togliermi quell’immagine.
Come sono stati gli anni al collegio della Madonnina del Grappa?
Ci sono tornata tante volte. Facevo il cameriere speciale a Don Facibeni, lo aiutavo a dire messa, a vestirsi, lo portavo al cesso. Mica tutti sono capaci di fare una cosa del genere. Sono cresciuta sempre in chiesa. Mi mandarono via negli anni Cinquanta perché ci fu il delitto di Pasqua. Lei non lo può sapere: un ragazzo di tendenze omosessuali come me e che aveva una gamba storpia si era messo con un ex ragazzo del collegio, ma poi aveva conosciuto una ragazza e voleva costruirsi una famiglia. Metallo Pastori si chiamava. Fu ucciso per gelosia. Mia madre venne chiamata per riprendermi.
Ha pensato di scrivere un altro libro?
Me l’hanno già chiesto, anche Mollo. Adesso stiamo pensando ad un film sulla mia vita.
Chi le piacerebbe che la interpretasse?
Quello è difficile. Ne stiamo parlando. Forse una donna un po’ mascolina. Bisogna vedere perché ora sono tutte rifatte con lo zigomo e il labbro e. Ci vorrebbero diverse età. Non so. Il regista è entusiasta e gli ho raccontato tante cose come ho fatto con te che non ci sono nel libro. C’è da lavorarci.
Resta il fatto che lei comunque ha fatto tantissimo.
Me lo riconoscono tutti. Anche se la legge che riconosce che si può cambiare nome non essendo operate mi lascia perplessa.
Oltre alla legge però ho dato coraggio alle persone di sentirsi libere di parlare di argomenti che erano tabù e non ne ho mai parlato in modo volgare.