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IL DESTINO DEI POPOLI. Intervista a Dario Fabbri 

di Lorenzo Hofstetter

 

Venerdì 21 novembre siamo tornati a seguire le interessanti Conversazioni in San Francesco (Lucca). Titolo della rassegna di quest’anno è “Frontiere”, un tema che apre a una miriade di riflessioni sul concetto di confine. Protagonista della serata è stato Dario Fabbri, celebre giornalista e analista geopolitico, che ha presentato il suo ultimo libro “Il destino dei popoli” (Gribaudo). Al centro del suo intervento si è iscritta una profonda riflessione sulla matrice reale dei cambiamenti storici, che spesso è di origine più culturale, linguistica, sociale, che non meramente politica.  Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Nel suo ultimo libro lei mostra come non siano le élite, bensì i popoli nel loro insieme, a determinare il corso della storia. I grandi eventi nascono spesso da processi tellurici, lenti ma inesorabili, che finiscono per compiersi come se fossero un “destino”. Quali strumenti offre la geopolitica umana per riconoscere i segnali di questi cambiamenti?

Gli strumenti storici della geopolitica umana rappresentano il tentativo di conoscere, anzitutto, i movimenti dei popoli. Prima ancora dei movimenti ideologici, religiosi o mitici, c’è il movimento dei popoli: bisogna insomma provare a fare il processo inverso. Noi siamo abituati a dire: si diffonde questa religione, si diffonde questa idea, che a sua volta provoca questa guerra, oppure provoca questo movimento, questo cambio di regime. Invece, la geopolitica umana rovescia completamente il punto di vista. Si crea un popolo diverso, un’affiliazione dovuta a una migrazione o a un nuovo dominio? Bene, questa nuova produzione di un popolo, oppure l’esigenza di un popolo che non si modifica ma cambia visione del mondo, consente o impone a quel popolo di adottare una nuova religione, nuove idee, nuove forme di governo. Se la geopolitica umana può avere un senso, quindi, è proprio questo: provare a capovolgere il nostro approccio. Invece di partire dall’alto, dalle idee, dalle creazioni, dall’immagine della realtà (religione, mito, idee, forme di governo, lingue); provare a vedere come spesso il processo sia esattamente inverso, al contrario.

foto di Luca Giorgi

Attualmente si parla molto della Cina, che sembrerebbe “destinata” a superare l’Occidente dopo l’arretramento subito nel XIX secolo. François Jullien, uno dei maggiori sinologi contemporanei, ha sottolineato come la percezione della realtà sia sempre condizionata dalla propria cultura: l’Occidente ragiona per individui, la Cina per situazioni; noi cerchiamo di andare “al di là”, loro si preoccupano di stare “tra”. Non sarebbe allora opportuno, soprattutto adesso, imparare a leggere la geopolitica anche attraverso queste chiavi di lettura?

La risposta è assolutamente sì. Specialmente quando si tratta, come in questo caso, di un tentativo di avvicinare l’approccio dell’altro, che non vuol dire interiorizzarlo, cioè che si debba abbandonare il proprio approccio per adottare esattamente quello dell’altro, ma che per comprendere il mondo bisogna necessariamente capovolgere lo sguardo. Provare a vedere le contrapposizioni nel singolo caso. Tutti gli esseri umani sono uguali – mi auguro che su questo si possa essere tutti d’accordo, al di là dei tanti razzismi che purtroppo rimangono – ma questo non vuol certo dire che vedano tutti le stesse cose, anche se sono biologicamente tutti identici. Spesso gli esseri umani vedono cose contrapposte, per ragioni culturali, per ragioni di portato storico e per molte altre. E quindi questo tipo di esperimenti dovrebbe servire esattamente a mettersi nei panni dell’altro, a compiere una sorta di viaggio verso l’esterno (che è complicatissimo, intendiamoci: neanch’io ci riesco!) Siamo tutti esseri umani, certo, ma nessuno riesce davvero a sdoppiarsi da sé. Anche se, almeno sul piano epistemologico (cioè, di metodo filosofico), provarci è decisivo. E questa forma, non necessariamente di contrapposizione, ma di confronto, può diventare anche contrapposizione a noi, confronto tra culture diverse adottando l’approccio dell’altro. Nel caso citato, specie nei confronti della Cina, questo è fondamentale. Se noi prendiamo il concetto stesso di libertà, che in Occidente è positivo (e ci mancherebbe pure…), essa rappresenta sempre una grande conquista. Fuori dall’Occidente, invece, quasi sempre essa mantiene un’accezione negativa. Com’è possibile? Sono esseri umani come noi, no? Possibile che anche loro non anelino a essere liberi? La libertà che viene loro in mente è molto diversa dalla nostra. In cinese “libertà” viene tradotto con zìyóu (自由) nei cui due pittogrammi originali vuol dire “naso”, yóu vuol dire “causa”. Perché i cinesi, nell’indicare se stessi, indicano il proprio naso: questo implica sempre che “la causa di tutto sono io”, cioè che la libertà è una forma di egoismo, una forma di claustrofobia mentale, contraria all’etichetta confuciana che invece, al contrario, afferma che ci si realizza solo all’interno della comunità, mai al di fuori. Se noi ci soffermiamo su questo genere di contrapposizione, riusciamo finalmente a rovesciare lo sguardo e a realizzare quel tipo di confronto che ci interessa.

foto di Luca Giorgi

Alla fine del secolo scorso, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, negli Stati Uniti si diffusero due grandi interpretazioni della storia: da un lato la celebre tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, di matrice post-hegeliana; dall’altro la visione di Samuel P. Huntington, che vedeva nell’avvio del multipolarismo l’anticipo di un enorme “scontro di civiltà”. Guardando al presente, quale giudizio possiamo dare oggi di queste idee?

“La fine della Storia e l’ultimo uomo” (1992) è sicuramente il libro più conosciuto di Fukuyama. Quando parliamo della sua fine della storia, ci riferiamo a un esperimento molto classico, ma bisogna sottolineare che gli americani non hanno inventato niente di nuovo. Certo, fa un po’ impressione vederla annunciata proprio così, con questa formula hegeliana… Ma tale idea non è nata in America: piuttosto rappresentava, fotografava, lo spirito del tempo: precisamente quel momento del delirio di mono-potenza – come io a volte lo definisco – in cui semplicemente, affascinati da quello che stava capitando, gli americani credettero seriamente di essere arrivati a un punto in cui si poteva solo essere americani. Cioè, che il mondo sarebbe diventato americano, ma spontaneamente – e questa è forse la parte più affascinante: si convinsero che fossero gli altri a desiderare proprio questo. Cosa rimane, oggi, di questa idea? Un residuo di suggestione, forse: una suggestione dettata probabilmente dall’ingenuità. Il dramma, però, è averci creduto davvero e, come dicevo anche nel mio intervento di stasera, continuare a crederci. Bisogna tra l’altro sottolineare che oggi si crede a questo mito più nelle province dell’impero americano, che non negli Stati Uniti stessi. Non so se paradossalmente, ma ci si crede di più in Europa occidentale che non oltreoceano. E non è casuale che da loro, nelle regioni centrali, si voti oggi Trump, come a voler significare esattamente l’opposto: questa cosa non esiste; non ce ne importa niente; non abbiamo alcun dovere di salvare l’umanità.

Per quanto riguarda l’idea di uno scontro di civiltà, la lettura di Huntington era, a mio avviso, pure peggiore di quella di Fukuyama. Conteneva al suo interno un po’ di tutto, a partire dalla vecchia idea di guerre di religione. La sua definizione del mondo è basata su principi estremamente astratti e rappresenta, soprattutto, una definizione delle culture totalmente arbitraria e totalmente occidentale. È impossibile, ad esempio, parlare di una “cultura dell’Islam” includendovi semplicemente tutti, a partire dagli arabi, i turchi e i persiani. Definire le civiltà in questo modo diventa decisamente inutile. Per concludere, ciò che rimane oggi di quei passaggi è il momento storico che essi hanno raccontato. Niente di più ampiamente superato dai fatti e dagli eventi.

 

foto di copertina: di Luca Giorgi

 

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