Femina Ridens, il progetto della cantante e ricercatrice Francesca Messina e il polistrumentista e compositore Massimiliano Lo Sardo, cambia pelle e con il nuovo album Etna Calling si cimenta con le radici più profonde della Sicilia contaminandole con suoni contemporanei. Etna Calling sarà presentato live al Circolo Il Progresso venerdì 31 ottobre, il giorno della sua uscita per RadiciMusic Records. Ne parliamo con Francesca.
Cosa vi ha spinto a dialogare con la tradizione siciliana?
La tradizione siciliana non è stata una scelta, è una radice che continua a parlarmi anche quando cerco di allontanarmene. È la lingua madre dei miei suoni, la memoria dei canti di protesta, delle voci delle donne che ho ascoltato da bambina nel mio paesello. Non si tratta di nostalgia, ma di riconoscere un patrimonio vivo, che cambia con noi. È un modo per fondare le radici senza rimanerne prigionieri, per non perdersi nel rumore di sottofondo del presente ma nemmeno fingere di appartenere a un mondo che non esiste più.
Il vostro album è stato prodotto da Cesare Basile, pilastro della scena musicale indipendente italiana. Com’è stato lavorare con lui?
Lavorare con Cesare è stato un privilegio. La cosa più sorprendente è la sua umiltà: un artista colto, generoso, mai intento a sfoggiare la sua straordinaria intuizione musicale. Ha realizzato una collaborazione davvero luminosa, ascoltando, accogliendo, restituendo sempre qualcosa di più. Con lui c’è stata una sintonia profonda, quasi naturale, perché condividiamo la stessa idea di musica come linguaggio ancestrale legato alla terra, ma anche all’anima contemporanea. È stato l’unico che potesse davvero produrre questo lavoro, con sensibilità e rispetto verso le nostre origini.
Insieme all’elettronica, il disco intreccia strumenti arcaici e mediterranei. Ce ne volete parlare?
L’intreccio tra strumenti antichi e suoni elettronici è il cuore pulsante del progetto: un ponte tra passato e futuro. È ciò che credo di più autentico possa fare oggi un musicista italiano — tenere le radici ben salde, ma farle vibrare dentro un tempo che non è più quello di ieri. Non avrebbe senso ricostruire un mondo scomparso. Abbiamo preferito lasciare che l’elettronica dialogasse con il santur persiano (ed altri strumenti tradizionali), il tamburo, i canti antichi — come se il Mediterraneo stesso si rigenerasse dentro un sintetizzatore.
Quali difficoltà avete trovato nel dare nuova vita al folklore popolare?
Non volevamo “riprodurre” il folk revival anni ’70 che certo conosco bene, e abbiamo attinto a piene mani da archivi sonori, da registrazioni sul campo, da reminiscenze intime e familiari. Ma è un lavoro di scavo più che di ricostruzione, dove la memoria incontra l’immaginazione. Restituire vita al canto popolare significa liberarlo dalle cornici, lasciarlo respirare nel presente come eco e risonanza e mai come rievocazione.
Ho letto che “Etna Calling” uscirà in un formato inedito… quale?
Sì, Etna Calling è un phono tale: un album da leggere e un libro da ascoltare. Abbiamo deciso di non produrre più CD, difficili da smaltire né vinili, sempre più costosi e destinati a una nicchia. Volevamo creare una forma ibrida, sostenibile, ma anche tangibile — qualcosa da tenere tra le mani. Attraverso un codice si può accedere alla musica, ma resta l’oggetto, il contatto fisico, la pagina, l’immagine, la parola. Credo che gli oggetti avvicinino: riducono la distanza tra chi fa musica e chi la ascolta. Non amo la parola “artista” — è inflazionata. Preferisco pensare a un gesto concreto, un dialogo tra chi crea e chi accoglie, in uno spazio condiviso di suoni, immagini e poesia.
Femina Ridens al Progresso venerdì 31 ottobre
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