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Hackerare le regole del gioco

Altair 8800, gennaio 1975. Microsoft, 4 aprile 1975. In un trimestre di appena cinquant’anni fa nascono il primo personal computer economicamente accessibile e il linguaggio di programmazione che ne permise l’utilizzo diffuso. Inizia così l’era domestica dei templi del calcolo che – dopo poco più di un decennio con la nascita del World Wide Web (1989) – ospitarono l’adorazione massiva del culto di internet. Religiosamente venerata da apologetə e navigatorə entusiastə, la rete ha ospitato la fiducia evangelica di chi ne ha goduto la completa disintermediazione e sperimentato l’inedita condizione ubiquitaria.

Mi chiedo come sia stato scoprire improvvisamente di poter essere chiunque in ogni luogo. Il pensiero ad albero, lineare e consequenziale, si interrompe; il molteplice spalanca la porta alle nuove connessioni rizomatiche. Bye bye gerarchie e binarismi; un caldo benvenuto alla magia del sistema ipertestuale. Non ci è voluto molto perché la promessa di questa orizzontalità multidirezionale venisse trasgredita in favore di un nuovo dominio monopolista che ha fatto delle Big Tech le nuove padrone di internet o, per lo meno, della porzione di internet che conosciamo. Solo il 4% dello sconfinato territorio virtuale è presente sui motori di ricerca (Clear Web) mentre il restante 96% (Deep Web) resiste come cyberspazio garante dell’anonimato e della crittografia del traffico.

Nella terra emersa di internet dunque, affrontiamo rischi di navigazione di ogni tipo: attentati alla privacy, sorveglianza e datificazione dell’esperienza utente, iterazione di bias, disordini informativi, dipendenza da boost di ricompense dopaminiche. Di questo scenario causticamente criticato abbiamo trattato nelle prime pagine del cartaceo di marzo 2025 con l’intervista di Salvatore Cherchi a Carlo Milani, co-autore insieme a Davide Fant di Pedagogia Hacker (elèuthera) e con la recensione di Fabio Ciancone sulla pubblicazione di Diletta Huyskes, Tecnologia della rivoluzione (Il Saggiatore).

Entrambi gli articoli navigano tra le pieghe e le piaghe dei mediascape, evidenziando la non-neutralità della tecnologia. Milani e Fant lo fanno promuovendo un’attitudine hacker per conoscere i dispositivi e contrattarne l’uso; Huyskes entra nel merito della dialettica tra tecnologia e società, analizzando gli effetti algoritmici programmati dai paesaggisti e dagli architetti del digitale (e no, l’uso del maschile sovraesteso non è un refuso). Se le piattaforme digitali vampirizzano il nostro tempo e le nostre energie, la responsabilità non è (solo) dell’utente, su cui invece spesso ricade in modo esclusivo la tossicità dell’uso.

E soprattutto, non sono spazi democratici o democratizzanti (nessunə infatti ha mai eletto i tecnocrati del mondo), piuttosto strumenti di accelerazione di processi o di eternizzazione di condizioni, prima su tutte quella dell’always on. Carlo Milani chiarisce infatti alcune delle principali tendenze che abitano le piattaforme tra cui «la costante riduzione della biodiversità tecnica» e l’omologazione che rendendo i prodotti «sempre più lontani e alieni nel loro funzionamento, oggetti percepiti come magici perché funzionanti come per magia». Fare pedagogia hacker significa quindi spezzare l’incantesimo, capire il trucco nascosto, smontarlo e all’occorrenza modificarlo.

Ho chiesto a Chat GPT cosa fosse l’8 marzo e la risposta conteneva espressioni celebrative e pure un paio di notizie false. Mi sono quindi fatta promettere che da ora in poi avrebbe per lo meno nominato la parola patriarcato. Non ho sicuramente spezzato l’incantesimo ma per lo meno ho hackerato le regole del gioco.

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