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Justin Randolph Thompson: le comunità temporanee come monumenti viventi

di Erica Fialà

Justin Randolph Thompson è un pluripremiato new media artist, facilitatore culturale ed educatore nato a Peekskill, NY nel 1979 e arrivato a Firenze nel 1999, co-fondatore e direttore di The Recovery Plan e di Black History Month Florence, iniziativa dedicata alle culture afro-discendenti in Italia. Lo abbiamo intervistato in occasione della presentazione delle due mostre Divorando le pietreWilliam Demby: Tremendous mobility che verranno inaugurate giovedì 5 febbraio alle ore 17,30 presso MAD nell’ambito della Decima edizione del BHMF dal titolo Tempo Rubato, metafora musicale che allude all’assenza arbitraria di una narrazione ufficiale degli afro discendenti in Italia.

Dalla Hudson Valley a Firenze: cosa ti ha fatto sentire che questa città fosse un terreno fertile per il tuo lavoro?

Il contesto fiorentino mi ha permesso di venire in contatto con una realtà molto più internazionale e pluralista di quella che ho vissuto negli USA. Sono nato nell’Hudson Valley ma sono cresciuto in tante altre città degli Stati Uniti dove la visione della storia era estremamente univoca e americano centrica. Qui a Firenze invece ho avuto la possibilità di confrontarmi con culture diverse, in un contesto artistico pieno di stimoli anche se assente di molte narrazioni. Ho odiato il primo corso che ho fatto sul Rinascimento perché mancava completamente la riflessione critica sul ruolo dell’Occidente rispetto al resto del mondo e sui limiti della celebrazione univoca del potere e della ricchezza anche nel racconto storeografico.

William Demby – Tremendous mobility – foto: Luca Segato

Il Black History Month Florence è nato nel 2016. Qual è stato il momento in cui hai capito che era necessario dare vita a questo progetto?

Dal 1999 quando sono arrivato a Firenze, sono spesso tornato negli USA per confrontarmi con altri afro discendenti perché qui era assente la riflessione unitaria delle varie comunità africane sull’afro discendenza, l’unico punto d’incontro era la lotta antirazzista che tuttavia non portava alla celebrazione di una storia lunghissima. Nel 2008 ho avuto un amico che mi ha spinto a costruire una comunità in grado di raccontare la nostra storia. Ci sono voluti tantissimi anni per costruire un gruppo solido, con una forte identità e capace di superare lo scetticismo rispetto a questi temi. Ho dovuto studiare molto, fare mille confronti e ognuno degli oltre 400 eventi prodotti dal Black History Month mi è servito a imparare qualcosa sulla storia degli afro discendenti in Italia e su come raccontarla.

Che reazione hai riscontrato nel pubblico fiorentino?

La reazione delle persone che ci incontrano è sempre molto positiva e le poche eccezioni in passato sono state legate a fraintendimenti del messaggio di cui ci facevamo portavoce, soprattutto per colpa di alcuni comunicati stampa.

Se la cultura fiorentina fosse una tavolozza, quali colori mancherebbero ancora nel quadro?

Io come artista non uso molto il colore, tuttavia non penso che sia il colore che manca in questa città, mancano le sfumature, facciamo fatica ad affrontare la molteplicità del reale in tutta la sua complessità e le sue sfaccettature. Il problema fondamentale per quanto riguarda l’afro discendenza è l’assenza di una narrazione ufficiale che faccia emergere la storia non detta in tutti i suoi dettagli.

William Demby – Tremendous mobility, foto: Luca Segato

Hai ricevuto premi importanti e riconoscimenti internazionali. Quale di questi ha avuto il maggiore impatto sul tuo percorso e perché?

Credo che il riconoscimento più significativo del mio percorso sia stato Creative Capital, un premio che ho ricevuto come artista tre anni fa (2022) dedicato ad artisti che con la loro opera sfidano confini formali, concettuali e sociali. L’ho vinto con un progetto dedicato a mio nonno ed è stato molto emozionante. Anche l’Italian Council research fellowship vinta nel 2020, ha avuto un ruolo importante perché è stato il primo riconoscimento italiano del mio lavoro. L’anno scorso ho vinto a Milano il Black carpet award, un premio promosso dall’Afro Fashion Association, che mette insieme figure legate al mondo dell’arte e della moda e ha riconosciuto il mio lavoro per Black History Month Florence e The Recovery Plan (legati entrambi al mio impatto socio culturale in città).

Arte e attivismo: in Italia c’è ancora chi li vede come mondi separati. Qual è la tua strategia per farli dialogare?

Non so se sia giusto parlare del mio lavoro in termini di attivismo, anche se penso che in parte vi contribuisca. Credo che la figura dell’attivista, nonostante sia importantissima, vada completata. Noi vediamo gli attivisti come persone che girano per strada con il megafono ma sono convinto che ci siano altri modi di spostare la cultura e generare un impatto orientato al cambiamento. Tuttavia è grazie a loro se sono evidenziate determinate problematiche e questo permette di instaurare un dialogo tra Istituzioni e artisti, intesi come mediatori culturali e come portatori di un messaggio sociale forte.

Qual è il fraintendimento più comune quando si parla di Black History Month Florence?

Che stiamo parlando della storia degli afro americani e non della storia dei discendenti africani in Italia. Che sia un evento realizzato solo da me senza una forte e coesa comunità alle spalle mentre invece è attraverso di essa che ho trovato la forza di costruire tutto questo. Il confronto all’interno della comunità di afro discendenti è fondamentale per non sentirsi soli e per ridimensionare energie ed emozioni di tutti, considerando che non è solo una tematica quella dell’afro discendenza, ma parte fondamentale della storia collettiva.

Divorando le pietre, foto: Luca Segato

Se dovessi trasformare Firenze in un’istallazione d’arte contemporanea, quale sarebbe il concept?

Io lavoro molto spesso attraverso le performance in strada e varie forme di auto-narrazione e di partecipazione collettiva. Firenze ha una storia vasta e plurale che non viene raccontata nella sua interezza ma viene dato spazio solo a due momenti della storia fiorentina: il Rinascimento e l’alluvione del ‘66 che ha messo a  rischio il patrimonio rinascimentale. Questa incompletezza non stimola l’interesse di tutto il pubblico, per questo ritengo importante creare installazioni collettive che mettano al centro le persone e le loro radici comuni. Inoltre la narrazione divulgata dalla storia ufficiale non tiene conto della distruzione umana e ambientale (genocidi, schiavitù ed estrazione selvaggia) che l’Occidente ha sistematicamente portato avanti per esaltare il potere attraverso l’architettura, l’arte e il progresso tecnologico.

Il tuo lavoro è fatto di connessioni e scambi: se potessi collaborare con un artista fiorentino del passato, chi sceglieresti e cosa creereste insieme?

George Zogo, artista camerunense che ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lione ed è arrivato a Firenze nel ‘66 con una borsa di studio. Faceva parte della prima generazione di intellettuali e artisti africani che arrivavano in Europa negli anni ‘60, nell’ambito della cooperazione culturale con i Paesi neo-indipendenti. Negli anni era diventato un solido punto di riferimento per la comunità africana, e per tanti che appena arrivati trovavano in lui una persona a cui rivolgersi per cominciare il processo di inserimento in città. Il suo carisma contribuiva a tessere reti e facilitare il dialogo, nella vita quotidiana dell’immigrazione africana a Firenze. Ci sono tante figure scomparse negli ultimi anni di cui abbiamo perso la storia perché non è stato attribuito loro il giusto valore mentre erano in vita.

Nel tuo lavoro utilizzi le comunità temporanee come “monumenti” e il networking come strumento di cambiamento. In una città come Firenze quali sfide hai incontrato nel far attecchire questa visione?

Si tratta di una semplice divergenza di valori. Mi piace definire l’utilizzo delle pietre da parte degli artisti della storia occidentale come un’arrogante aspirazione alla permanenza. L’idea è quella che attraverso i monumenti si possa lasciare un segno che duri per sempre mentre ci sono culture che per molto tempo hanno vissuto in perfetta armonia con la natura senza bisogno di sfruttare uomini e risorse della terra con un impatto meno distruttivo sul pianeta.

 

Le due mostre inaugurate il 5 febbraio alle 17:30, rappresentano il nucleo della visione e dell’approccio di The Recovery Plan, che incoraggia l’accessibilità degli archivi, il recupero della storia e un costante lavoro di aggiornamento della sua eredità.

 

Divorando le pietre
William Demby: Tremendous mobility
6 febbraio 2025 – 4 maggio 2025
MAD Murate Art District – piazza delle Murate, Firenze
martedì – sabato, dalle 14:30 alle 19:30

 

https://www.murateartdistrict.it/george-adeagbo-divorando-le-pietre/
https://www.murateartdistrict.it/william-demby-tremendous-mobility/
http://www.blackhistorymonthflorence.com/

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