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Moltitudini: il podcast che racconta i circoli ARCI

Un podcast per raccontare la realtà di ARCI

Moltitudini è il nuovo podcast in 15 puntate prodotto da storielibere.fm in collaborazione con ARCI in cui Francesco Pacifico racconta la realtà multiforme dei circoli diffusi in tutto il territorio italiano. Il podcast è parte di Essere moltitudine, l’auto-inchiesta sugli spazi culturali e di prossimità di ARCI realizzata in collaborazione con Che-fare. «L’idea è di fare un viaggio in Italia, una sorta di pellegrinaggio per grazia ricevuta», ci dice l’autore. «Stare nei circoli ARCI mi ha salvato durante la pandemia, perché aprivano con delle logiche non economiche ma comunitarie. Nei circoli non si parlava la lingua distopica, allo stesso tempo buonista e poliziesca, che usavano le istituzioni in quel periodo. È stato un momento in stile Essi vivono: una volta indossate le lenti dell’ideologia percepivo tutti come scheletri, mentre l’ARCI era un posto in cui la realtà era sentita in altri modi. È un viaggio filtrato dalla mia visione, in cui cerco di capire cosa unisce chi va ad ascoltare musica al Fanfulla a Roma e chi gioca a bocce in un circolo di periferia, chi lotta per GKN e chi organizza un doposcuola. Vorrei che il mio podcast fosse una sorta di mediazione tra l’ARCI e il fuori».

 

Come hai selezionato i circoli in cui andare?

«Su certe cose l’hanno data vinta a me, su altre io a loro. Se fosse per me, cercherei di raccontare tutte le cose più sotterranee, fuori dal mondo e disadattate. Entro in sintonia soltanto con persone che si sentono perse. Loro giustamente volevano anche raccontare altro. L’ARCI centrale giudica certe realtà territoriali un po’ strane, mentre a me sembrano perfettamente sane. Sarà che sono cresciuto in parrocchia ma sono affascinato dai posti strani e credo che l’ARCI dovrebbe valorizzare la propria biodiversità, il proprio avere all’interno tante erbette strane dai sapori assurdi, potrebbero essere più centrali nella coscienza di sé che ha l’ARCI. Non è una critica la mia, è un’opera di lobbying in favore dei disadattati di questo mondo».

 

Nei circoli ARCI resiste una cultura e una prassi politica di sinistra non rappresentata al livello politico né istituzionale, che crea comunità più ricche e diversificate di quanto il voto o la rappresentanza parlamentare non dica. Questo vuoto è emerso nel podcast? Ti ci sei relazionato in qualche modo?

«Mi sono reso conto che esistono molte cose diverse all’interno di un’unica tradizione che si sente erede del comunismo italiano. Forse per raccogliere un campo più ampio si dovrebbero accogliere più stimoli culturali, portare dentro cose più diverse, non ospitare soltanto una certa estetica e un certo tipo di musica, ad esempio. Comunque, in ogni posto in cui sono stato ho sentito una grande avversione alla società capitalista contemporanea. Esiste una fascia di trentenni molto omogenea che potrebbe esprimere qualcosa di molto produttivo politicamente. Il motivo per cui non lo fa, credo, è che il linguaggio degli eredi della sinistra del Novecento ha espresso un realismo capitalista che ha completamente ammutolito la sinistra stessa. Sembra che alcune cose si possano dire soltanto al di fuori del Matrix, mentre il PD ha provato a far evolvere la sinistra dentro Matrix, dentro il realismo capitalista, devastando completamente la propria base. La domanda è se sia possibile creare un partito che sta al di fuori del Matrix e l’alt right dimostra di sì. Perché non si riesce a essere fanatici e fuori di testa come l’alt right? Hanno costruito un potere culturale alternativo a forza di podcast e social strampalati, mentre noi stiamo ancora sui social di Satana. Come dice Marco D’Eramo nel suo ultimo libro, la Destra degli anni Settanta ha studiato le prassi della Sinistra, mentre non è mai successo il contrario».

 

Generalmente nei tuoi podcast hai un approccio notturno ai temi di cui parli, intervisti per sottrazione, amplifichi i silenzi, azzeri l’interazione con il pubblico. Qui invece hai dovuto mantenere un approccio più razionale, in ogni episodio c’è un’introduzione, ad esempio. Nella puntata dedicata al Torrione è evidente la tua conoscenza diretta degli spazi e delle persone con cui hai dialogato. Come ti sei relazionato invece a contesti che non conosci? Come hai conciliato l’inchiesta di ARCI e il tuo modo di fare podcast?

«Per quanto l’inchiesta sia un metodo parascientifico, sono molto influenzato dall’idea di Adorno secondo cui il saggista debba conciliare il metodo scientifico e l’ispirazione poetica. Molto spesso, quando si fa una ricerca, ci si nasconde dietro un principio di oggettività, ma quando entriamo in contatto con il mondo lo facciamo sempre anche in modo poetico. Ho cercato di reagire al bisogno dell’inchiesta e ho deciso anzi di inserire me stesso e la mia esperienza come parte della mia stessa inchiesta. In una puntata di prova fatta a Firenze, l’intervista non aveva funzionato perché sentivo che la mia indagine dovesse necessariamente appigliarsi a qualcosa di oggettivo e razionale. La mia forma saggistica, invece, si ispira a Montaigne, è un costante tentativo di appigliarsi alla realtà per comprenderla: è la mia parte poetica che mi fa entrare in sintonia con lo sconosciuto che va a giocare a bocce nel circolo di Bologna. A volte le persone intervistate si sentono in dovere di parlare come un comunicato stampa, come se non ci fosse nulla di interessante in quello che fanno normalmente, mentre da romanziere sono interessato a capire la connessione tra il modo in cui io cerco un circolo e il modo in cui lo cercano altre persone di altre età, altre classi, altre situazioni. Io so che sono arrivato nei circoli ARCI strisciando e cerco di mettere nel podcast la mia disperazione, ma so che in posti come la Toscana o l’Emilia Romagna, ad esempio, esiste una tradizione per cui le persone nei circoli ci sono cresciute, perché sono più radicati al livello sociale. Il cuore dell’indagine risiede in due questioni fondamentali di cui ho voluto parlare con tutti: cosa trovi all’esterno quando apri la porta del circolo? Cosa c’è dentro invece, che storia ha quel luogo e come ci sei arrivato? Queste due dimensioni sono allo stesso tempo scientifiche e poetiche: chiedo alle persone intervistate di descrivere tutto quello che c’è nei posti, dalle poltroncine di velluto rosso del Nuovo Film Studio di Savona agli odori della sera prima del Magazzino sul Po’ di Torino, le questioni di soldi, di tempo e di organizzazione. Non so dire se tutto ciò sia razionale o irrazionale».

 

Quando a dicembre 2023 hai presentato Il Capo, il tuo ultimo romanzo, al circolo San Niccolò a Firenze hai detto che preferisci andare in questi posti a fare dialogo con il pubblico piuttosto che nelle librerie di catena perché ti sembra di “stare nel mondo reale”. Andando in posti che non conoscevi ti è capitato di trovare cose invece totalmente inaspettate, che ti abbiano dato l’idea di un’alterità radicale che vive nel circuito dell’ARCI?

«Tendo a considerare razionale tutto ciò che è reale, non sono la persona adatta a rispondere. Trovo comunque che esistano due strati di realtà: uno è quello per cui le persone agiscono a partire dai propri bisogni, l’altro è quello in cui si parla per frasi fatte. Distinguo tra questi due strati nei comportamenti delle persone. Ci sono persone che arrivano all’ARCI per necessità pratiche ma portando cose nuove, ad esempio dei ragazzi che organizzavano festival rock e che con la pandemia si sono affiliati all’ARCI perché la pandemia ha imposto nuove cose da fare nella comunità, e ci sono le case del popolo di Firenze o la società di mutuo soccorso di Savona. L’ARCI può sia valorizzare la propria storia sia far notare che ci sono persone che continuano ad affiliarsi oggi perché ha ancora senso farlo. Può essere un momento trasformativo che raccoglie tante forze di persone che vogliono “scappare” dal realismo capitalista e costruire nuovi mondi in cui stare».

 

Crediti fotografici: Francesca Pignanelli

 

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