Storie

Il progetto SAI: una fitta rete di interazioni

By Irene Tempestini

December 02, 2024

Con l’acronimo SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) si indica la rete di enti locali che, con la fondamentale collaborazione delle realtà del terzo settore e attraverso l’accesso al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, si occupa di progetti per l’accoglienza integrata.

Lo scorso novembre sono stata accolta, per una visita, nella sede di Campi Bisenzio, uno dei centri che fa capo al progetto SAI della Società della salute fiorentina nord ovest, la cui gestione è affidata alla Cooperativa sociale Il Girasole e alla Fondazione Solidarietà Caritas. Alessandra Modica, operatrice del progetto insieme a Furio Sbolgi, Laura Cocchi e Nela Marinucci, mi spiega che le persone ospitate nel loro centro – assieme a quello di Sesto Fiorentino, Scandicci e Calenzano – sono, per la maggior parte, titolari di protezione, dunque già in possesso di una risposta positiva sulla possibilità di rimanere in Italia. Gli accessi alla struttura sono però garantiti anche ai minori non accompagnati, per i quali viene richiesto un prosieguo amministrativo fino al compimento dei 21 anni e, infine, ai richiedenti asilo – quindi ancora in attesa della titolarità – ai quali però è stato riconosciuto un requisito di vulnerabilità, ad esempio le vittime di tratta.

È chiaro il carattere puramente legale e burocratico della categoria: viene da chiedersi fino a che punto non si possa definire come “vulnerabile” un essere umano che abbandona per necessità i propri luoghi d’origine per approdare in sistemi sociali totalmente diversi. L’obiettivo su cui si fonda l’attività di queste realtà è duplice: fornire gli strumenti alle persone accolte al fine di renderle autonome nella vita di tutti i giorni e sensibilizzare la comunità accogliente di riferimento per farle comprendere che un centro di accoglienza per migranti può essere un bene per il territorio stesso. É importante, quindi, che i sei mesi di permanenza nel centro – periodo che può comunque essere prolungato se richiesto – riescano a mettere in moto dei processi in cui tutti gli attori, muovendosi all’unisono, abbiano gli strumenti concreti per intrecciare un tessuto sociale omogeneo. Questo avviene solo quando il migrante viene aiutato ad entrare in diretto contatto e a porsi in dialogo con gli abitanti originari del luogo, senza che venga ghettizzato o considerato principalmente nella sua alterità, ma riconosciuto dalla comunità come una persona, con gli stessi sentimenti e gli stessi problemi quotidiani.

Uscendo dalla struttura di accoglienza mi soffermo a riflettere su quanto mi è stato raccontato, sui luoghi appena osservati e fotografati, sulle persone che ho ascoltato, che mi hanno accompagnata tra i corridoi della struttura, e quelle di cui ho incrociato uno sguardo lesto mentre con la bicicletta uscivano dal giardino antistante. Ripenso alla conversazione che ho avuto con gli operatori e le operatrici e al ruolo centrale che attribuiscono alla necessità di collaborazione tra il territorio di accoglienza e i titolari di protezione ospitati nei centri. Così, all’improvviso, in un’associazione mentale improbabile ma non casuale, la mia mente collega le esistenze delle persone al comportamento degli oggetti fisici nella teoria dei quanti, letta qualche mese fa in Helgoland di Rovelli: «Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità […] Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire uno sull’altro. […] Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni».

 

Testo e fotografie di Irene Tempestini