C’è stato un tempo in cui i grandi comici italiani divenivano drammaturghi di loro stessi e fondamentalmente scrivevano sceneggiature che, a rileggerle a tempo debito tutte insieme, rappresentano un lungo flusso di coscienza in cui finivano per raccontarsi nelle loro paure, le insicurezze, le idiosincrasie. Carlo Verdone, Massimo Troisi, Francesco Nuti sono forse gli esempi più conosciuti (trovo appropriato accostare, almeno per il suo primo decennio di attività, anche Nanni Moretti, soprattutto pensando a pellicole come “Ecce Bombo” e “Bianca”). Accadeva poi che questi film, scritti, diretti e interpretati da questi cineasti in cui si raccontava di giovani uomini alle prese con relazioni d’amore complicate e famiglie disfunzionali, ambientati molto spesso nelle rispettive città di origine, diventassero campioni di incassi al botteghino facendo diventare il decennio che va dal 1980 fino agli inizi del ‘90, un’età dell’oro che non si è più ripetuta.
Francesco Nuti è mancato lo scorso 12 giugno ma già da tempo, a causa di una grave infermità, era lontano dalla scena pubblica. Un personaggio un po’ dimenticato che ricordavamo come attraente, malinconico e stranamente familiare, con cui non era difficile identificarsi. Dei tre anche il più semplice; sprovvisto del peso di un background come quello di Carlo Verdone e poco incline alla cifra più gigionesca adottata da Troisi, Nuti si era fatto le ossa con i Giancattivi con i quali aveva affinato l’arte dell’assurdo che diventa comico e la capacità di creare sketch con parole e frasi che diventavano leitmotiv. Aveva messo molto di sé nei suoi film come la passione per il biliardo, il rapporto col padre, l’incostanza sentimentale e una profonda inquietudine.
Dal momento della scomparsa sono stati molti gli omaggi a Francesco Nuti a cominciare da un commosso funerale a San Miniato a cui hanno partecipato molte delle personalità toscane del mondo dell’intrattenimento, alla immediata decisione di intitolargli le Manifatture Digitali Cinema a Prato insieme a numerose proiezioni dei suoi film più famosi in diverse arene. In quei giorni, in una interessante intervista fatta da Edoardo Semmola per Il Corriere Fiorentino, Giovanni Veronesi, amico e storico collaboratore di Nuti, ha affermato: “Oggi quasi tutti i nostri film sarebbero considerati sconvenienti”. Niente di più vero. Il cinema di quegli anni si curava poco di temi che ora sembrano, certamente a buon diritto, essere imprescindibili. Le donne soprattutto, creature complesse e impossibili da possedere fino in fondo, potevano essere schiaffeggiate o gli si poteva cantare poco romanticamente che avevano le puppe a pera. È difficile da spiegare oggi ma non veniva percepita una volontà di svilirne il ruolo quanto piuttosto un bisogno disperato di umanizzarle perché, l’uomo in crisi raccontato in quei film, ne avesse meno paura e non ne fosse soggiogato. Il film di Francesco Nuti che ritengo sia la sua eredità più preziosa è “Tutta colpa del paradiso”; il più attuale, in cui un padre rinuncia a tutto per il bene di un figlio. Nessuna trasgressione, nessuna sensibilità offesa. Una scrittura semplice che, ancora oggi, racconta l’amore, la paura e quella solitudine incolmabile.